Così gli insulti razzisti accelerano il degrado Usa

La comunità somala residente in Minnesota non «contribuisce in alcun modo» al bene degli Stati Uniti; «non li voglio più qui», «devono tornarsene in quello schifo che è il loro paese»; bisogna smettere di far «entrare questa spazzatura» in America; la deputata democratica di origine somala Ilhan Omar «è immondizia», come «immondizia sono i suoi amici …. facciamo in modo che tornino da dove sono venuti». Così si è espresso Donald Trump, durante l’ultimo incontro del suo Gabinetto. Con il vicepresidente JD Vance che batteva il pugno sul tavolo in segno di apprezzamento e il resto dell’esecutivo che rideva, applaudiva e, quando chiamato a intervenire, celebrava con toni nordcoreani le doti incomparabili e gli straordinari successi dell’amato leader. E con la segretaria alla Homeland Security, Kristi Noem, che rincarava la dose, invocando un divieto totale d’ingresso negli Usa – un nuovo travel ban – da tutti «quei dannati paesi che stanno inondando la nostra nazione di assassini e sanguisughe». Il razzismo di Donald Trump è noto e documentato. Stiamo però assistendo a un rilevante salto qualitativo, che ci dà la cifra di cosa sia questa presidenza e del degrado inarrestabile del discorso politico e pubblico negli Stati Uniti. Di quanto tossica e pericolosa sia la retorica che giunge da un pulpito, quello presidenziale statunitense, la cui forza pedagogica non ha probabilmente pari. La “bacheca della vergogna” sul sito della Casa Bianca. Trump mette all’indice i media sgraditi In passato, chi giustificava o finanche apprezzava Trump ci ha spesso invitati a non dare peso alle sue parole: a concentrarsi non su queste, ma su politiche che, pensiamo solo a quelle in materia di fiscalità, erano talora in linea con la tradizione della destra repubblicana dell’ultimo mezzo secolo. Un ragionamento in realtà fallace e pericoloso, questo. Perché tra parole e fatti, retorica e politica, vi era spesso un rapporto assai più stretto di quanto non si volesse ammettere, come ben stiamo vedendo in questa seconda esperienza presidenziale. E perché le parole erano, e sono, importanti in quanto tali: definiscono il perimetro del dicibile e dell’immaginabile; esercitano, appunto, una pedagogia pubblica potente e potenzialmente nefasta. Nel caso di Trump, lo fanno alimentando un discorso nativista, violento e crudele, che deumanizza l’avversario politico e l’altro, straniero anche quando ha pieni diritti di cittadinanza, come nel caso di Omar e dei tanti cittadini statunitensi di origine somala a cui Trump si rivolgeva. Crudeltà, violenza e deumanizzazione che costituiscono la cifra distintiva e caratterizzante il messaggio e la retorica di Donald Trump e di tanti membri del suo gabinetto, da Noem al segretario della Guerra, Pete Hegseth, che a quanto pare il settembre scorso ha dato l’ordine di finire con un secondo colpo i pochi sopravvissuti tra gli undici marinai di un’imbarcazione venezuelana affondata in seguito a un attacco statunitense. Venezuela, morsa bipartisan su Trump. Al Congresso l’ombra di crimini di guerra Un discorso, questo, che rimanda a una dialettica che ha segnato la storia degli Stati Uniti: quella tra due concezioni antagonistiche dell’identità nazionale; tra un nazionalismo essenzialista e razziale, quale è quello di Trump e dei suoi, e uno costituzionale e civico. Il primo poggia sull’assunto che vi sia un’essenza fondativa e immutabile che definisce gli Stati Uniti; che essi siano, e debbano lottare per continuare a essere, un paese bianco e cristiano (“giudeo-cristiano”, si sarebbe detto dopo la Seconda guerra mondiale, secondo una logica che oggi, con l’antisemitismo sempre più diffuso nel movimento Maga e tra tanti intellettuali trumpiani, sembra essere però archiviata). Il secondo rimanda all’idea che quello statunitense è un esperimento imperfetto e incompleto, come per ogni democrazia. Che questa incompiutezza si manifesti in un perimetro – dei diritti democratici e dell’inclusione nella comunità statunitense – malleabile e mutevole; e che per realizzarsi necessiti, prima di tutto, di sanare la ferita originaria e fondativa dell’esperimento repubblicano: quella razziale. Che invece Trump rilancia, provando a mettere in discussione con un ordine esecutivo il fondamentale XIV emendamento sul diritto di cittadinanza per nascita sul territorio statunitense, discriminando apertamente i membri delle minoranze nella politica di assunzioni del governo federale, contestando l’appartenenza agli Stati Uniti di cittadini «immondizia», come Omar e i somali di Minneapolis, oltre che il diritto di risiedere negli Usa di immigrati intenti, come ebbe a dire un anno fa, ad «avvelenare il sangue dell’America».