Alla prima prova dell’alleanza Pd-M5s, nella versione Letta-Conte, ognuna delle 5 grandi città al voto in ottobre farà storia a sé. A Torino e Bologna, i 5 Stelle non possono ambire a presentare una loro candidatura perché i rapporti di forza elettorali sono troppo sbilanciati a favore del centrosinistra e del Pd in particolare. Non essendo emerse candidature che si stagliano nettamente sopra le altre, ci saranno primarie realmente competitive del centrosinistra, con i 5 Stelle in attesa dell’esito. Al contrario che a Milano, dove le disponibilità di Giuseppe Sala di ricandidarsi ha chiuso ogni discussione.

A Napoli, dove i rapporti di forza sono più equilibrati e vedono i 5 Stelle in vantaggio, la soluzione più rassicurante è un nome autorevole che consenta sin dall’inizio un accordo con il Pd, possibilmente con l’assenso del presidente della regione De Luca e senza che volino stracci. Se alla fine in un modo o nell’altro centrosinistra e 5 stelle riuscissero a trovare una formula che consenta la convivenza pacifica se non un accordo formale, le possibilità di vincere in queste prime quattro città sarebbero buone. Soprattutto, sarebbero buone le probabilità che il processo aiuti la costruzione dell’alleanza che Giuseppe Conte ed Enrico Letta dicono di avere in mente per le politiche.

A Roma invece le cose sono molto più complicate. Perché al contrario di Chiara Appendino, uscita di lato, la sindaca uscente Virginia Raggi si ricandida rivendicando di avere agito per il meglio. Nel farlo dovrà  scaricare molte responsabilità sulle azioni malevole delle opposizioni. La candidatura che era sembrata per qualche tempo risolutiva di Nicola Zingaretti è apparsa e scomparsa a seguito di oscure voci riguardo a dossier velenosi minacciati ed apparentemente temuti. Il che la dice ancora più lunga sul clima dei rapporti tra la componente 5 stelle che condurrà la campagna e il Pd romano.

La scelta di Carlo Calenda di correre per conto proprio complica ulteriormente il quadro. La giustificazione ufficiale è che le primarie del centrosinistra sono arrivate tardi e male. Tuttavia, si può dubitare che Calenda avrebbe potuto mai considerare questa opzione. La sua popolarità personale ha livelli di gran lunga superiori alle intenzioni di voto per il suo partito Azione. Inoltre, si tratta di una popolarità trasversale, più ampia proprio tra gli elettori meno identificati con le forze politiche esistenti.

Quindi, le elezioni romane sono per Calenda una ottima occasione per misurare la “sua” forza elettorale, ed è ovvio che preferisca farlo in un campo più vasto delle primarie del centrosinistra. Con Zingaretti indisponibile e Calenda che strappa in solitaria, il Pd ha speso Roberto Gualtieri, la personalità più autorevole tra i suoi ranghi.

A Roma i numeri del centrodestra, a maggior ragione considerando la capacità attrattiva di Calenda, non sono tali da consentire più di una candidatura competitiva. Al primo turno delle comunali del 2016, Giorgia Meloni e Alfio Marchini messi insieme raccolsero il 34 per cento dei voti. Alle Europee 2019, Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia sono arrivati al 40 per cento.

Quindi il primo turno delle elezioni sarà l’equivalente di una anomala primaria, tra il trasversale Calenda, i 5 stelle e il candidato del Pd, che spera di rimanere baricentrico per ricucire poi le ferite inferte e subìte, in vista del turno finale. Sarebbe l’esito anche più confortevole per la transizione verso l’alleanza giallo-rossa organica coltivata da Conte e Letta ma, naturalmente, con l’aria di tempesta che spira nella politica romana, non è affatto garantito.

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