Nel 2019 l’Università di Harvard ha simulato un attacco alla sicurezza nazionale scatenato con crypto valute. La dice lunga sull’importanza che gli Stati Uniti attribuiscono al recente annuncio che la Cina lancia il digital renminbi.

Un annuncio avvenuto in coincidenza con la quotazione al Nasdaq (per oltre 100 miliardi) di Coinbase, una borsa per gli scambi di criptovalute, come Bitcoin o Ethereum. Queste criptovalute sono ben diverse da una moneta digitale, come il futuro renminbi; ma la quotazione di Coinbase, e la sua capitalizzazione, sono un chiaro segno di quanto ormai sia vasto il mercato e l’utilizzo di pagamenti e investimenti in strumenti digitali, sia in Cina che in America.

Per capire la rilevanza delle monete digitali, e in cosa differiscano dalle criptovalute private, è necessaria qualche premessa. La moneta è un mezzo di scambio, cioè è detenuta per essere scambiata con beni o attività; non ha un valore intrinseco, ma lo deriva dalla garanzia che chiunque la accetterà negli scambi attribuendole il medesimo valore. Questa garanzia è data dal monopolio della banca centrale per la sua creazione.

La moneta è dunque una passività della banca centrale, nella forma di banconote, o delle banche (i depositi) che gestiscono il sistema dei pagamenti operando come “agenti” autorizzati dalla banca centrale.

Carte di credito, di debito, virtuali (come ApplePay), bancomat, o peer-to-peer (come PayPal) non sono moneta, ma soltanto un modo per trasferire depositi bancari, in alternativa a un assegno o un bonifico. Le posizioni nette tra le banche vengono alla fine regolate dalla banca centrale che agisce da libro mastro centralizzato per la moneta.

Come funziona 

Una criptovaluta è invece caratterizzata da una tecnologia che permette la regolazione delle transazioni su di un libro mastro decentralizzato, in un sistema autoregolamentato e liberamente accessibile tramite la rete: la più famosa, bitcoin, si basa sulla tecnologia blockchain.

In estrema sintesi funziona così: se due controparti vogliono scambiarsi bitcoin inviano la proposta in rete ai nodi (“i miner”) che verificano l’unicità e validità della transazione, e la certificano inserendola in modo sicuro da ogni falsificazione nel libro mastro della criptovaluta.

Per poter certificare la transazione i miner (non ci sono vincoli a diventarlo) devono risolvere un complesso problema matematico, che richiede grandi capacità informatiche e potenza di calcolo (hardware), con un elevato consumo di energia elettrica. Il primo miner che riesce a risolvere il problema, per poter certificare la transazione, inserendola come “blocco” nella catena digitale che costituisce il libro mastro, deve aspettare che gli altri miner verifichino la sua soluzione del problema.

Un miner sostiene costi elevati: il suo ritorno è dato dalla possibilità di emettere nuovi bitcoin in base al numero di transazioni certificate, e al numero dei miner (più sono, più difficile il problema da risolvere) secondo una regola predefinita.

Bitcoin prevede emissioni per un massimo di 21 milioni, contro i 18,7 milioni oggi in circolazione. Il profitto dei miner dipende così dall’incremento di valore della criptovaluta (molti sono miliardari).

In analogia con una banca centrale che regola solo le posizioni nette tra le banche, non tutti gli scambi sono regolati sulla blockchain; molti vengono compensati prima, da borse come Coinbase, in cambio di una commissione.

L’offerta limitata, oltre all’assenza di una banca centrale garante del valore, fanno sì che il prezzo di una criptovaluta sia determinato unicamente dalla domanda, che così può fluttuare senza limiti (anche azzerarsi).

Le criptovalute non sono dunque una moneta digitale ma un’attività finanziaria. Hanno però dimostrato che esiste una tecnologia capace di rendere obsoleto l’attuale sistema dei pagamenti.

Basti pensare ai tempi e costi per aprire (e chiudere) un conto bancario, richiedere o sostituire una carta, eseguire un bonifico (pochi quelli istantanei); alle commissioni sulle transazioni pos (oltre al costo per l’accesso alla rete), alla lentezza della connessione per i pos mobili, o i tempi per l’operatività (inserimento dl prezzo, del pin, la doppia sicurezza della Mifid II).

Per le criptovalute basta un cellulare e l’accesso alla rete: costi e burocrazia zero. Più rapido anche del contante (niente attese per il resto) e più sicuro (nessun rischio di borseggio).

Perché la Cina entra nel settore

Yomiuri

Una moneta digitale emessa da una banca centrale ha gli stessi vantaggi di convenienza di una criptovaluta privata, ma garanzia del valore e costi inferiori per via della centralizzazione del libro mastro che evita la complessità tecnologica delle transazioni in criptovalute. 

Non sarebbe anonima (come carte e depositi; ma neanche le criptovalute lo sono veramente): chi privilegia l’anonimato continuerà a usare il contante, ma perderà convenienza e facilità di uso rispetto a carte, depositi, e contante.

Bitcoin nasce nel 2009: perché la Cina solo ora emette la prima moneta digitale? Perché è così strategica per gli Stati Uniti? E per l’eurozona?

La Cina la emette ora perché voleva fermare Alibaba che con Ant di fatto ne aveva creato una versione privata. Già oggi usata da 700 milioni di cinesi, che possono caricare depositi in renminbi sui cellulari utilizzabili per qualsiasi investimento o pagamento (solo avvicinando il cellulare), oltre a poter prendere a prestito o comprare un’assicurazione: una grande banca, ma totalmente digitale con depositi e transazioni al di fuori dal circuito bancario, meno costosa e più efficiente.

Oltre a bloccare la quotazione di Ant e sanzionare severamente Alibaba, il Governo doveva però offrire ai cinesi un’alternativa altrettanto efficiente per i pagamenti.

Inoltre, un renminbi digitale ne incentiva l’uso nelle transazioni internazionali, un obiettivo che è strategico per Pechino. Ma un grande rischio per gli Usa: la prevalenza del dollaro nei pagamenti internazionali e la possibilità di monitorarne i flussi tramite Swift, il sistema interbancario internazionale, concedono infatti al suo governo il potere di imporre sanzioni economiche agli altri paesi.

Le monete digitali, che non dipendono dal circuito Swift, mettono a repentaglio questo potere. Per questo l’amministrazione americana, pur avendo gli Usa il più vasto numero di utenti e i mercati più sviluppati di criptovalute, le hanno sempre viste con sospetto e apprensione. Mi aspetto che l’arrivo del renminbi cambierà il loro atteggiamento.

Come reagisce l’Europa

E l’Europa? I governi se ne disinteressano. Per la Bce ci vorranno cinque anni per arrivare all’euro digitale. E dalle prime indicazioni c’è il serio rischio di un flop: un importo massimo detenibile, per non fare troppa concorrenza alle banche; la possibilità di imporre tassi negativi, cioè una tassa sul suo utilizzo; e l’ipotesi assurda di una moneta digitale offline per evitare la tracciabilità in rete (come se depositi ed e-commerce non lo fossero).

Si rischia un ritardo incolmabile che si aggiunge all’incapacità di creare nell’eurozona un sistema bancario e finanziario unico e vasto, in grado di competere con Usa e Cina.

Poi penso ai nostri bonus e lotterie degli scontrini, o alla quantità di pezzi di carta che si devono firmare per qualsiasi operazione finanziaria, e mi sembra di vivere in un paese che ancora viaggia con il treno a vapore, quando gli altri hanno l’alta velocità.

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