Vladimir Putin ha espresso in modo piuttosto chiaro quale sia l’obiettivo tattico dell’invasione dell’Ucraina: un cambio di regime, cioè la sostituzione del presidente eletto Volodomyr Zelenksy, con un governo che lui considera legittimo, dunque filorusso e teleguidato da Mosca. Zelensky resiste e la comunità internazionale lo sostiene con sanzioni senza precedenti contro Mosca, Putin e il suo sistema di potere.

Ma se l’obiettivo russo è ormai evidente, qual è l’obiettivo di Stati Uniti, Unione europea e stati membri? La domanda può sembrare ridondante, la risposta più facile è: fermare la guerra. Eppure, non è una risposta convincente.

Le misure adottate sembrano funzionali a un altro obiettivo, forse definito dagli eventi più che da una strategia precisa: cioè un cambio di regime non a Kiev, ma a Mosca, con la caduta di Vladimir Putin.

Negli otto anni trascorsi tra l’annessione della Crimea e l’invasione dell’Ucraina, Stati Uniti e Ue hanno cercato non di ripristinare lo status quo precedente agli abusi di Putin, ma di definirne uno nuovo compatibile con le esigenze del presidente russo e quelle occidentali di rispetto dei diritti e contenimento dei danni.

Gli accordi di Minsk I e Minsk II, in pratica, congelavano l’annessione indebita di una regione dell’Ucraina. E ancora nelle settimane precedenti all’invasione del 23 febbraio 2022, Francia, Germania e perfino Italia erano per un approccio dialettico con Mosca, non certo per una linea di confronto frontale.

Per anni, insomma, abbiamo cercato di convivere con Putin, senza mettere in discussione la legittimità del suo potere e neanche la sua durata. Quello che sta succedendo in Ucraina oggi ci pare senza precedenti, ma di precedenti ce ne sono eccome.

Dalla guerra in Georgia nel 2008 all’infinita guerra “per procura” in Siria, dove la Russia ha sostenuto il regime di Bashar al-Assad e usato quel terreno di scontro per costruire e disfare coalizioni internazionali che poi si replicavano anche in Libia o perfino in Mali.

Non si può convivere con Putin

Convivere con Putin si è rivelato impossibile. Come ho raccontato in un lungo articolo, anche l’idea di cambiare la politica russa attraverso l’economia si è rivelata un fallimento: le sanzioni di Stati Uniti e Ue negli ultimi otto anni hanno prodotto ben poco, sia perché cercavano di proteggere il business cruciale per Mosca e per noi, cioè l’energia, sia perché sembravano pensate più per le opinioni pubbliche occidentali che per distruggere davvero il sistema di potere di Putin.

L’invasione dell’Ucraina ha cambiato l’approccio dell’Occidente: con Putin non si può più convivere. Di argomenti per questa linea intransigente, Putin ne ha offerti parecchi. Lo storico Timothy Snyder, uno degli osservatori più acuti delle dinamiche russo-ucraine, ne coglie uno che già basterebbe: il richiamo del presidente russo alla necessità di “de-nazificare” l’Ucraina e fermare un inesistente “genocidio” della popolazione russofona ha il doppio scopo di costruire una legittimità posticcia ai soprusi russi usando il linguaggio che in Occidente segna il tabù supremo (chi si può opporre alla lotta al nazismo?), ma anche banalizzarne la portata storica.

Putin usa il passato come un kalashnikov: solo i russi, veri vincitori della Seconda guerra mondiale mai abbastanza omaggiati dal resto del mondo, hanno la legittimità morale per stabilire chi sono i nuovi nazisti e, quindi il dovere di fermarli. Questo il suo messaggio implicito.

Dunque, avverte Timothy Snyder, le sue parole vanno interpretare come l’annuncio dell’intento di «arrestare i leader politici e civili dell’Ucraina, mettere in scena processi sommari e organizzare esecuzioni di cittadini innocenti».

Se questa è la valutazione di Putin che prevale nelle diplomazie occidentali e in un ambiente accademico ormai saturo di compromessi e ipocrisie, allora è chiaro che la tentazione del regime change diventi quasi una necessità.

Il problema della democrazia

C’è però un piano di analisi più sottile che considera di leggere l’impianto di sanzioni come orientato a togliere il potere a Putin invece che a fermare le ostilità.

L’ex ambasciatore americano in Russia Michael McFaul e il professore di Relazioni internazionali all’Accademia militare di West Point Robert Person articolano questo ragionamento in un saggio sul Journal of Democracy: Putin non teme la Nato, Putin teme la democrazia. Quindi ogni compromesso con Mosca, in questo momento, ha come oggetto superficiale le dispute sull’annessione di questa o quella repubblica ex sovietica alla Nato o all’Ue, ma in realtà riguarda la disponibilità dell’Occidente di accettare democrazie fasulle gestite dall’esterno, come è stata l’Ucraina fino al 2004, al tempo della “rivoluzione arancione” che ha cacciato l’allora presidente fantoccio filorusso Leonid Kuchma. Democrazie sul modello della Bielorussia, per intenderci.

McFaul e Person ricostruiscono il ventennio di Putin al potere e notano che l’espansione della Nato o dell’Ue non sono mai state un problema per la Russia di per sé, ma solo quando a Putin serviva un argomento per contrastare l’influenza democratizzante dell’Occidente e reprimere il dissenso in quella che lui considera la legittima e necessaria sfera di influenza russa.

Prima della rivoluzione arancione in Ucraina nel 2004, Putin e il suo primo ministro Dimitri Medvedev, non avevano obiezioni a un dialogo disteso con Ue e Nato, erano arrivati perfino a ventilare un possibile ingresso dei due paesi in alleanze nate per contrastarli. Quando nel 2000 un giornalista della Bbc chiese a Putin se la Russia avrebbe mai considerato l’adesione alla Nato, la riposta fu «Non vedo perché no». Con un’aggiunta importante: «Non escludo questa possibilità  ma, lo ripeto, se e quando le visioni della Russia verranno prese in considerazione come quelle di un partner di pari livello».

Le relazioni tra Occidente e Russia si deteriorano poco dopo, quando iniziano le “rivoluzioni colorate” che riescono a portare un po’ di democrazia in paesi che ne avevano conosciuta poca, come l’Ucraina. E poi peggiorano di nuovo dopo le rivoluzioni arabe (dal 2011), quando un’altra ondata democratizzante sembra attraversare paesi di frontiera, con i regimi abbattuti a colpi di Tweet, vedi Egitto. E, guarda caso, appena ripartono le rivoluzioni dal basso, Putin riscopre il pericolo della Nato e delll’Ue e decide di reagire ai movimenti ucraini filo-europei con l’occupazione della Crimea.

La relativa vittoria di Putin in Crimea, con la comunità internazionale costretta a fare da spettatrice ai suoi soprusi, non corrode la democrazia ucraina, ma al contrario la rafforza attorno alla figura del più improbabile dei presidenti, l’ex comico Volodomyr Zelensky che oggi resiste alle bombe di Putin nelle strade di Kiev così come, due anni fa fresco di elezione, aveva resistito alle pressioni di Donald Trump per indagare Joe Biden per corruzione e comprometterne le possibilità alle imminenti elezioni presidenziali.

«Putin ha costruito questa crisi riguardo all’espansione della Nato per minare la democrazia ucraina in modo più diretto», scrivono McFaul e Person.

L’invasione del 23 febbraio non è un gesto di stizza, ma l’esito ultimo e inevitabile di un piano che Putin aveva annunciato al mondo con il saggio del 12 luglio 2021 che Domani ha tradotto in italiano: un lungo esercizio di manipolazione della storia antica e recente della regione che può portare soltanto a un esito, la Russia deve occupare l’Ucraina per proteggersi e per correggere una stortura della storia.

L’Ucraina, nella visione di Putin, è uno stato abusivo. Ma soltanto l’Ucraina democratica, ovviamente.

Dimenticare l’Afghanistan

Abbiamo imparato la lezione, la democrazia non si esporta e men che meno si esporta con le bombe, dicevamo qualche mese fa, dopo la fuga drammatica dell’esercito americano da Kabul, al termine di un inconcludente ventennio di “state building”. E invece ora Putin ci costringe a confrontarci con il fatto che la democrazia si esporta eccome, tanto che lui sta facendo una guerra per impedircelo. E noi reagiamo in un modo che sembra orientato ad abbattere il suo regime non democratico in Russia, più che a condizionarne le scelte e riportarle nei binari del diritto internazionale.

Tutto quanto è stato deciso finora da Stati Uniti e Unione europea, più le varie agenzie internazionali come la Fifa che sospende le squadre di calcio russe, costringe a un paio di domande: si può davvero tenere la Russia fuori dalle relazioni internazionali mentre continuiamo a comprarne il gas che alimenta i nostri riscaldamenti e le nostre aziende?

Certo, abbiamo tenuto ai margini paesi come l’Iraq e l’Iran, dai quali era vietato anche importare petrolio. Ma finora nessuno ha mai detto di essere disposto a rinunciare al gas russo, anzi continuiamo a strapagarlo perché le tensioni internazionali ne gonfiano il prezzo.

Le misure drastiche di questi giorni, dalla sospensione dei voli al blocco di molte transazioni finanziarie, sono difficili da mantenere per più di qualche settimana.

Perché troppi sono gli intrecci con la Russia che, per quanto abbia da sempre un’economia fragile, è paese cruciale per metà della Borsa italiana, tanto per stare all’Italia: in un solo giorno, Intesa San Paolo e Unicredit hanno perso rispettivamente il 7,4 e il 9,5 per cento. Dalla finanza alle infrastrutture alla moda, rendere in modo permanente la Russia un “paria”, come ha detto Joe Biden, delle relazioni internazionali sarebbe una misura con forti resistenze prima di tutto in Europa (e in Italia).

Altre misure adottate stanno distruggendo il sistema finanziario russo: il rublo crolla, rifinanziare il debito pubblico diventa praticamente impossibile, le restrizioni all’accesso alle banche al sistema di comunicazione SWIFT possono innescare una corsa agli sportelli che innescherà crisi di liquidità, la banca centrale ha raddoppiato il costo del denaro, portandolo al 20 per cento, nel tentativo di sostenere il rublo. Già quest’ultima misura sarebbe sufficiente a mandare il paese in recessione.

I blocchi all’export di tecnologia e la sostanziale espulsione di molte aziende russe dall’economia occidentale produrrà danni da noi, ma problemi molto più seri in Russia.

Queste non sono misure per colpire Putin, ma per innescare una crisi sociale nel paese che finirà (almeno nelle intenzioni non dichiarate) per destabilizzare il Cremlino.

Dopo l’uomo forte

Ci sono molti rischi in questo scenario da regime change. Il più ovvio e immediato è che Putin ha a disposizione testate nucleari: mezzo secolo di Guerra fredda ha insegnato che nessuno sceglie con leggerezza la “mutua distruzione reciproca”, ma che il pericolo di un incidente o di una scelta estrema è sempre presente.

Se questa strategia di regime change non dichiarato avrà successo, comunque ci saranno conseguenze impegnative da gestire: abbiamo visto in Afghanistan nel 2002, in Iraq nel 2023, in Libia nel 2001, in Siria nel 2012 e in molti altri contesti che la caduta di un dittatore o il suo ridimensionamento non sempre lascia spazio alla democrazia, più spesso al caos e a fazioni estremiste.

Se invece Putin dovesse resistere a questa enorme pressione occidentale e conservare il potere, anche senza prendere l’Ucraina, allora avremo un presidente russo in piena crisi di legittimità interna ma ancora potente che cercherà presto un’altra battaglia da vincere nella quale dimostrare la sua forza residua, o magari una repressione di quel po’ di dissenso che la società civile russa sta facendo emergere in questi giorni di guerra.

Si può arrivare a una guerra nucleare senza volerlo, certo, ma le vicende di questi giorni dimostrano che si può arrivare a un tentativo di forzare un clamoroso regime change in Russia senza dichiararlo, soltanto perché un intreccio di nobili ideali e interessi tattici di breve periodo spinge in quella direzione. Joe Biden si prepara a elezioni di metà mandato difficili, niente come una guerra aiuta a distogliere l’attenzione dagli scarsi successi interni.

L’Unione europea si stava spaccando di fronte alla sfida di paesi come Ungheria e Polonia che ne contestavano la legittimità istituzionale di vincolare aiuti e finanziamenti al rispetto delle più elementari norme dello stato di diritto. Di fronte al comune nemico russo, le differenze scompaiono, i paesi di Visegrad sono pronti perfino ad accogliere rifugiati, se si tratta di fieri ucraini cacciati dal loro paese dalla folle guerra di Putin.  

Una guerra è infine l’acceleratore che mancava ai progetti di “Unione europea della difesa” che servono, tra l’altro, a legittimare molta spesa pubblica che finanzia investimenti e progetti di aziende del settore militare e tecnologico che hanno forte rilevanza politica.

Tutto questo spiega perché la reazione all’invasione all’Ucraina sta diventando un tentativo di abbattere Putin. Forse siamo già andati troppo oltre per tornare indietro. Speriamo che qualcuno tra coloro che stanno guidando il confronto in un’escalation senza ritorno sappia davvero cosa sta facendo. E che ci sia un lieto fine.

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