Centomila soldati russi al confine con l’Ucraina apparentemente prossimi all’invasione, gli Stati Uniti pronti a inviare oltre 8 mila militari in Europa Orientale, i paesi baltici in stato di massima allerta, le cancellerie dell’Europa occidentale impegnate nella mediazione. Ma come siamo giunti fin qui? Fin dove può spingersi la crisi?

Scaturigine degli eventi è il doloroso intreccio tra la volontà degli Stati Uniti e le esigenze della Russia, con i paesi dell’Europa centro-orientale stretti tra i due giganti. In barba al cantato secolo asiatico, è tuttora impossibile dominare il pianeta senza controllare la penisola europea, territorio impareggiato per influenza culturale e prestigio geopolitico. Evidenza perfino più cogente al termine della guerra fredda, quando Washington stabilì di estendere la propria influenza anche sulla metà del continente riemersa dal giogo sovietico.

L’allargamento affrettato

Per battere sul tempo i russi che in futuro avrebbero potuto reclamare il territorio perduto, gli americani accelerarono l’allargamento a est della Nato, con ben 12 paesi in precedenza d’Oltrecortina o parte dell’Unione Sovietica che in vent’anni aderirono all’Alleanza Atlantica. Nonostante la promessa pronunciata da Bush padre di non insidiare l’estero vicino di Mosca. Medesima frenesia che informò pure l’unificazione tedesca, imposta dagli Stati Uniti alle principali cancellerie europee, all’epoca assai fredde all’idea, compreso il governo italiano affezionato all’esistenza di due Germanie.

A determinare l’adesione al fronte statunitense, non certo la vocazione democratica di Washington, dato insignificante per paesi assai poco plurali come la Polonia o l’Ungheria, quanto l’elemento geografico che puntualmente consiglia a eventuali satelliti di scegliere l’egemone più lontano.

Viceversa, sul proprio fronte occidentale la Russia non possiede barriere orografiche per sventare eventuali invasioni. Sicché da sempre necessita di allontanare la prima linea di difesa da Mosca e San Pietroburgo, sottomettendo le nazioni dell’Europa orientale, possibilmente tramutandole in innocui cuscinetti, infischiandosene delle loro aspirazioni.

Specie la Bielorussia e l’Ucraina, tra gli ultimi territori formalmente estranei alla Nato, attraversati durante la storia da tutti gli eserciti che hanno puntato la piana moscovita.

Se il Cremlino ancora riesce a tenere Minsk, nel 2014 ha perso il controllo su buona parte dell’Ucraina, ormai inclinante all’Occidente, con l’esclusione del russofono Donbass e della Crimea nel frattempo annessa all’Orso.

A determinare tale passaggio di campo, la spontanea rivolta di Maidan, abilmente cavalcata dai paesi baltici e dagli stessi americani. Proprio tale sconvolgimento, capace di consegnare Putin ai libri di storia russa con l’infame colpa d’aver perso l’Ucraina, ha ulteriormente aggravato la percepita insicurezza di Mosca, ormai giunta al parossismo.

L’occasione di Putin

Dopo aver scommesso invano sulla naturale simpatia di Donald Trump per il Cremlino, annullata dall’ostilità degli apparati d’Oltreoceano che causò il primo impeachment ai danni del newyorkese, adesso il presidente russo Vladimir  Putin prova a sfruttare la congiuntura internazionale per spuntare una tregua nel proprio estero vicino.

Consapevole di non poter ottenere alcuna garanzia scritta, tantomeno perenne, prova a cogliere la necessità americana di concentrarsi sulla Cina per raggiungere un temporaneo compromesso. E nel tentativo di corroborare il proprio potere negoziale continua a minacciare l’invasione dell’Ucraina, operazione probabilmente destinata al fallimento, extrema ratio che vorrebbe perseguire soltanto in assenza di alternative.

Sostanza delle richieste russe è l’imperativo strategico che impone a una qualsiasi potenza di dividere il campo dei nemici per non affrontarli simultaneamente, possibilmente avvicinando il soggetto più debole. Come nel 1971 gli Stati Uniti aprirono alla Cina maoista per allontanarla dall’Unione Sovietica, oggi dovrebbero accordarsi con la Russia per staccarla dalla Repubblica Popolare.

Necessità abbracciata da tutti i presidenti americani post-guerra fredda, da Bush figlio a Barack Obama fino a Trump, ma puntualmente respinta dalle agenzie federali, specie dal Pentagono, per il timore di perdere il controllo sul decisivo continente europeo.

Scenario che Putin spera non si verifichi anche questa volta, giacché Biden pare favorevole a trovare un accordo con i russi, mentre gli apparati restano tuttora contrari – con l’eccezione del dipartimento di Stato, formalmente impegnato ad elaborare le risposte da inviare al Cremlino. Impasse che caratterizza queste ore di massima tensione.

Con il presidente russo che attende di vedere come si risolverà lo scontro sul tema interno all’amministrazione americana per decidere il da farsi. Complicazione ulteriore in un dossier che rischia di decidere il futuro aspetto del continente europeo.

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