Il decreto legge approvato dal governo Meloni segna un passo verso la fine della bolla dei bonus edilizi. Secondo le stime ufficiali incorporate nella Nadef (inizio novembre 2022) il volume complessivo dei bonus era di 110 miliardi (di cui 61 miliardi per il superbonus 110 per cento), oggi viaggia oltre i 120 miliardi.

Una cifra abnorme, pari a più della metà dell’intero ammontare del Pnrr ovvero sei volte il gettito annuale dell’Imu.

Per il superbonus, a fine gennaio, si registrano 370.000 interventi con un onere di 72 miliardi.

Dati che confermano la stima approssimativa di un onere di circa 2.000 miliardi se si volesse coprire l’intero patrimonio immobiliare del paese. Una politica insostenibile, cosa peraltro già chiara da oltre un anno.

L’origine del problema

L’esplosione dei bonus nell’ultimo biennio è dovuta a una norma del 2020 che consente di cedere il credito vantato nei confronti dello Stato, una detrazione dall’imposta sul reddito spalmata su 5-10 anni a seconda del tipo di bonus, all’impresa che effettua i lavori, che lo acquisterà con uno sconto immediato in fattura e a sua volta lo cederà a una banca e così via.

La eccessiva generosità del superbonus (110 per cento della spesa) e del bonus facciate (90 per cento della spesa) ha eliminato ogni contrasto di interesse tra proprietari degli immobili e imprese edili con il conseguente abnorme aumento dei prezzi.

Vi è una certa evidenza, nel caso del superbonus, di un rapporto tra costo e benefici in termini riduzione delle emissioni insoddisfacente rispetto ad altre misure.

Peraltro la spesa sussidiata riguarda per circa metà interventi accessori, i cosiddetti interventi trainati, diversi da caldaia e cappotto termico.

Insomma, oltre che insostenibile dal punto di vista finanziario, anche di dubbia efficacia.

Correggere il disastro

Dal 2022 è iniziato il depotenziamento, il bonus facciate è stato ridotto al 60 per cento e abolito per il 2023, il superbonus è destinato a scendere gradualmente, al 90 per cento nel 2023 fino al 65 per cento nel 2025.

Qui interviene il nuovo decreto che fa essenzialmente due cose. La prima è il blocco della cessione dei crediti per i lavori non ancora avviati (per i quali non è stata ancora presentata la Comunicazione di inizio lavori).

Si tornerà, insomma, a poter usufruire unicamente della detrazione fiscale spalmata su 5-10 anni.

La motivazione è legata alla modalità di registrazione dell’onere nei conti pubblici.

Finora, a prescindere dalla cessione del credito, è stato registrato e si è tradotto in disavanzo pubblico l’ammontare delle detrazioni anno per anno: il costo per lo Stato di un determinato intervento si spalma quindi su 5-10 anni.

Per il futuro è probabile che Eurostat richieda, nel caso di cessione del credito, la registrazione dell’intero costo il primo anno.

Si tratterebbe di una misura condivisibile, in quanto, coerentemente, con il principio della competenza, renderebbe trasparente il volume degli impegni assunti nell’anno.

Ciò si tradurrebbe in un aumento del disavanzo 2023 che il governo vuole scongiurare.

Senza cessioni

Il decreto vieta poi la cessione dei crediti ad enti pubblici. Da tempo il sistema finanziario fatica ad assorbire i crediti generati dai bonus edilizi.

In particolare, le banche stanno esaurendo la propria capienza fiscale: il volume dei crediti già acquistati è tale di fatto da azzerare le imposte che dovranno pagare nei prossimi anni.

I crediti restano così in capo alle imprese che li hanno acquistati dai proprietari degli immobili, in cambio dello sconto in fattura.

Nelle scorse settimane sono intervenute province e regioni che si propongono come acquirenti dei crediti, con il paradossale effetto della pubblica amministrazione che dal lato dello Stato riconosce un credito ai privati che poi viene acquistato (con uno sconto) da amministrazioni locali che diventano così creditori dello stato centrale, finanziando l’acquisto con i fondi strutturali dell’Unione europea (come documentato da Luciano Capone nel Foglio). Un bel pasticcio che è bene bloccare sul nascere.

D’altro canto, il decreto rende più agevole l’assorbimento dei crediti da parte delle banche, alleggerendo la responsabilità sul fronte delle truffe, ma questo si scontra come detto con il limite oggettivo della capienza fiscale delle banche.

Cosa manca

E’ un bene che la bolla dei bonus si sgonfi. Ma oltre a misure di emergenza come quelle del decreto occorre un ripensamento generale. I bonus vanno ridotti e la loro entità va riportata a un livello giustificato dall’interesse pubblico.

Per essere precisi, occorre non andare oltre il 50-60 per cento della spesa.

Vanno aboliti bonus come quelli, privi di un impatto energetico o anti-sismico significativo, per i mobili e i giardini.

La cosa più importante è che la maggior parte delle risorse non deve essere destinata al fai da te ma deve indirizzarsi verso programmi mirati di risanamento urbano, da un lato, e di sviluppo delle energie rinnovabili dall’altro. Programmi di cui beneficerebbero anche i meno abbienti, privi di capienza fiscale.

© Riproduzione riservata