Il moderno movimento conservatore americano ha avuto al centro del suo agire una parola ben precisa: libertà.

Si può discutere di come questa fosse intesa; i suoi critici mettevano in luce di come si focalizzasse sulla libertà economica, soprattutto per quanto riguarda le imprese. Appunti ai quali si rispondeva con il sostegno dato ai dissidenti dei regimi comunisti, a cui mal si sposava l’appoggio fornito a certi dittatori latinoamericani. C’era però un punto su cui i repubblicani figli politici di Richard Nixon e Ronald Reagan convenivano: l’America era il meglio che ci fosse e la sinistra, composta dai nostri “amici liberal-democratici” doveva solo comprendere che «i migliori giorni dell’America erano altrove». Adesso non è più così. E non c’è solo la tendenza autocratica espressa dall’ex presidente Donald Trump nei suoi anni di governo. C’è un nuovo amore per un paese, l’Ungheria di Orbán, che testimonia la presenza di un sentimento più profondo, che scuote quelle che sono i concetti fondamentali della Repubblica americana.

Miti esteri

Dicevamo dell’America come miglior posto al mondo. Mentre i repubblicani pensavano questo sin dagli anni Venti, vedendo l’America come un’isola di sanità mentale mentre l’Europa si faceva travolgere dalle ideologie estreme, alla sinistra del partito democratico i miti esteri c’erano eccome. Il giornalista John Reed moriva a Mosca nel 1920, convinto della bontà della causa dei bolscevichi. Negli anni Trenta Edgar Snow fu uno dei primi occidentali a intervistare Mao Zedong e divenne per il resto della sua vita un convinto apologeta del suo governo. In anni più recenti la Cuba castrista ha ricevuto elogi da parte di Bernie Sanders quando era sindaco di Burlington, in Vermont, e da parte della futura rappresentante democratica Karen Bass, che fece parte di un gruppo di attivismo filocubano.

Infine, un mito più democratico ma non meno fallace è quello che attraversa l’attuale sinistra sanderista, ovvero la socialdemocrazia scandinava. Ma non quella attuale, debole e in balia di crisi identitarie, ma una immaginaria e astorica, con un welfare onnicomprensivo e una pace sociale che non è mai veramente esistita.

Sorprende quindi che un’area politica che ha sempre usato “antiamericano” come un insulto non sia così netto nel respingere alcune fascinazioni esterofile.

Salazar americano

Prima dell’Ungheria e di Orbán c’è stata un’altra fascinazione mitologica: sul sito di The American Conservative, bimestrale nato nel 2002 in opposizione alla guerra in Iraq, il 23 gennaio 2021 è apparsa la recensione di un libro dello storico Tom Gallagher su Antonio de Oliveira Salazar, primo ministro del Portogallo dal 1932 al 1968, fondatore dell’Estado Novo, un totalitarismo di destra fondato su un tradizionalismo cattolico ben diverso dal fascismo italiano e dal nazismo tedesco.

La recensione di quello che era un libro che già subiva il fascino di questa figura, si chiudeva con l’auspicio di un Salazar americano, un nuovo “re filosofo”. Proposta che è stata reiterata su un sito ben più marcatamente trumpiano come American Greatness lo scorso 1° agosto e con un tono ben più minaccioso: Salazar è un esempio per il modo duro con cui ha trattato i suoi nemici. Senza troppo badare a cose come “i principi”. Per mantenere il bene comune, si capisce. Tralasciando anche che quando il regime salazarista cade nel 1974, il paese è uno dei più poveri dell’Europa occidentale e anche adesso resta uno dei più poveri dell’Unione europea.

Ma che cos’è questo bene comune a cui tanto si aspira? Torniamo al presente. Al più popolare giornalista televisivo d’America: Tucker Carlson, il tribuno televisivo di Fox News che dal 2016 ha un preserale alle 7 in punto dove attacca i temibili democratici, critica fortemente le politiche migratorie dell’amministrazione democratica (che peraltro sono rimaste al momento molto simili a quelle di Trump), mette in guardia dai presunti effetti avversi dei vaccini e combatte contro altri grandi pericoli per la libertà americana come l’obbligo di mascherina. Ebbene, per una settimana ha trasmesso il suo programma da Budapest. Per Viktor Orbán è stato un insperato aiuto: la prossima primavera dovrà affrontare nuovamente le urne e un’opposizione ha trovato la quadra per riuscire a sostituirlo dopo 12 anni di potere autocratico e nel contempo l’Unione europea lo mette sotto pressione per le sue ripetute violazioni della libertà di stampa. Chi meglio di un giornalista americano può difendere chi viene accusato di essere illiberale. Diciamo subito che questa non è una garanzia così forte: nel 1929 Stalin concesse un’intervista al corrispondente da Mosca del New York Times Walter Duranty, nella quale si difese dalle accuse di essere un tiranno che non rispettava i diritti umani.

Senza che le sue dichiarazioni venissero poste seriamente in dubbio. Allo stesso modo questo è accaduto anche con Tucker Carlson il 6 agosto. Su un punto in particolare il conduttore di Fox News ha glissato: l’avvicinamento di Orbán alla Cina che dovrebbe comportare la costruzione di un campus della Fudan University di Shangai a Budapest.

Non solo: c’è un dato che salta agli occhi. L’Ungheria è meno religiosa di quelli che sono i meno religiosi stati d’America: secondo uno studio del Pew Research Center del 2019, in Massachusetts e in New Hampshire quelli che si definiscono “molto religiosi” sono solo il 33 per cento, mentre in Ungheria sono il 17 per cento. In Alabama questa cifra tocca il 77 per cento, per fare un esempio.

Quale fascino?

Debole sia nella difesa della sovranità sia nella promozione della religione. Quindi perché Orbán piace così tanto? Perché è un fenomenale polemista delle culture war che tanto piacciono alla destra contemporanea, che appare guidata dal principio del “far incazzare i liberal». E quindi ecco l’apprezzamento per Orbán che vuol respingere «gli invasori musulmani» (ma si trova a corto di forza lavoro), che passa le leggi per impedire «la promozione dell’omosessualità tra i minori» e proibisce i “gender studies” all’università e mette un freno alla stampa progressista.

Un sogno che Carlson ha sintetizzato con «sei odiato dalle persone giuste».

Se però il mito scandinavo della millennial left di Alexandria Ocasio-Cortez adotta come modello un’area con un tenore di vita più alto degli Stati Uniti, lo stesso non si può dire dell’Ungheria, che anzi, secondo i dati presentati dal ricercatore dell’American Enterprise Institute Dalibor Rohac in un articolo sulla National Review, la libertà economica è stata stagnante nel decennio passato.

E cita dati dell’Heritage Foundation, un think tank conservatore che ha sposato appieno la causa trumpiana.

Carlson non è solo, anzi: il commentatore Rod Dreher, autore de L’Opzione Benedetto, un libro che propone ai cristiani moderni di creare comunità distaccate dal mondo, vive in Ungheria da alcune settimane e la esalta come un modello di libertà espressiva. Perché questo?

Possiamo dire che le scorrettezze politiche amate dalla destra non vengono attaccate dai liberal, ma vengono esaltate dal governo di Orbán, anzi, diventano policy.

In sintesi, questo è il sogno ungherese della destra americana: un posto dove la mano pubblica viene usata contro la “sinistra” per vincere le guerre culturali.

E questo, per chi veniva da un modello culturale dove «il governo non è la soluzione dei problemi, ma il problema», è un radicale cambio di paradigma.

Di sicuro è ben lontano dal diventare la visione mainstream del partito repubblicano, ma in alcuni stati come la Florida, dove il governatore Ron DeSantis minaccia di togliere i fondi alle scuole che inseriscono la Critical Race Theory nei loro corsi di studio, questo seme è già stato gettato. E rischia di piantare radici profonde.

 

© Riproduzione riservata