Di recente, Carlo Calenda ha avanzato su Twitter la proposta di un obbligo di «registrarsi con identità verificata» ai social network. Non è chiaro se per l’europarlamentare si debba anche usare il proprio nome e cognome sui social, oltre a identificarsi al momento dell’iscrizione. Così sembrerebbe, dato che Calenda si lamenta di «profili falsi/anonimi». Può essere utile verificare fattibilità e impatti della proposta.

Anonimato e libertà di espressione

Calenda sembra non considerare che l’anonimato, in diversi casi, permette di godere di piena libertà di manifestazione del proprio pensiero, diritto essenziale di ogni individuo.

L’obbligo di identificazione per l’uso dei servizi online è stato criticato nel 2013 dal Relatore speciale per la libertà di espressione per l’Onu, Frank La Rue, il quale ha chiesto agli stati di «astenersi dal forzare l’identificazione degli utenti come condizione preliminare per l’accesso alle comunicazioni».

Nel 2015 sempre il Relatore speciale, David Kaye, ha rilevato l’importanza di garantire e proteggere l’anonimato, che consente agli individui di «esercitare i loro diritti alla libertà di opinione e di espressione nell’era digitale e, come tali, meritano una forte protezione». Inoltre, nel 2015 il parlamento europeo ha invitato a «promuovere strumenti che consentono l’utilizzo anonimo e/o pseudonimo di Internet», in quanto garanzia per gli «attivisti dei diritti umani all’interno e all’esterno dell’Ue».

In Unione europea il diritto all’anonimato è tutelato dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu, articoli 8 e 10). In Italia, nella Dichiarazione dei diritti di Internet del 2015 si afferma che esso è funzionale all’esercizio delle libertà civili e politiche senza discriminazioni o censure.

Ma il diritto all’anonimato non è assoluto. «L’equilibrio tra anonimato in rete e tutela di chiunque sia leso da comportamenti illeciti tenuti on-line» – ha affermato nel 2015 l’allora Garante per la privacy, Antonello Soro – «è realizzato prevedendo la reversibilità e tracciabilità dell’anonimato (e quindi la possibilità di identificazione dell’agente) in base a provvedimento giudiziale, nei casi previsti dalla legge». In altre parole, qualora si pubblichino contenuti che possono ledere beni di rilievo costituzionale quali onore, reputazione o riservatezza, la tutela dell’anonimato viene meno.

La schedatura generale

«Non è questione di reati ma di qualità dei social. Identità finte, ragazzi che non hanno l’età per starci, anonimi che veicolano fake…in che modo tutto ciò è una grande conquista per una democrazia?» si chiede Calenda.

Premesso che, come spiegato, l’anonimato giova alla democrazia nel senso di consentire il confronto delle idee anche a coloro i quali correrebbero rischi nel parteciparvi con la propria identità, il politico omette di considerare che «autenticare tutti gli esseri umani» –  come vorrebbe Elon Musk, e Calenda sulla sua scia –si tradurrebbe in una schedatura globale. E tale schedatura rischia di essere sproporzionata rispetto agli obiettivi perseguiti, peraltro, non esattamente individuati.

Nel 2017, riguardo a un disegno di legge (n. 2575) finalizzato a tracciare l’identità degli utenti di piattaforme, il Garante Privacy affermò che la massiccia raccolta di dati avrebbe potuto violare i principi di proporzionalità e minimizzazione previsti dal Gdpr (Regolamento europeo per la protezione dei dati personali).

Peraltro, se una legge nazionale imponesse l’obbligo di identificazione degli utenti di social network, tale obbligo potrebbe riguardare solo il territorio italiano, dunque non chi si collegasse dall’estero. Non è pensabile che Calenda abbia in mente una piattaforma “sovranista”.

Quanto all’uso dei social da parte dei minori, un sondaggio realizzato nel 2019 dall’associazione Osservare Oltre mostra che l’84 per cento dei ragazzi tra 10 e 14 anni ha un profilo almeno su una piattaforma social, ma solo il 22 per cento l’ha creato con il consenso dei genitori, obbligatorio per i minori di 14 anni (d.lgs. n. 101/2018).

Tuttavia, pensare di risolvere per legge un problema educativo e culturale interno alle famiglie pare una forzatura, oltre alla sproporzione tra la gravosità della raccolta e conservazione dei dati personali e il fine perseguito.

La responsabilità degli utenti social

Secondo Calenda, mostrare la propria identità significa «assumersi la responsabilità di ciò che si scrive in una pubblica piazza virtuale», e questo sarebbe «un passo fondamentale per ristabilire un decoro nella discussione sui social».

Premesso che il concetto di decoro è discrezionale, quindi difficilmente definibile, il principio di responsabilità già oggi fa sì – come detto – che la tutela dell’anonimato venga meno in caso di lesione di altri diritti e l’autore sia perseguibile giudizialmente. Se non c’è violazione giuridica, la responsabilità è solo etica, e non può essere imposta per legge.

Peraltro, anonimato o meno, in caso di condotte che violano le clausole d’uso del social, il gestore può “sanzionare” l’utente, ad esempio limitando la sua possibilità di utilizzo della piattaforma o rimuovendo il contenuto pubblicato. E l’abolizione dell’anonimato non è la soluzione adottata dal Digital Service Act, che invece pone obblighi a carico del gestore al fine di contrastare gli abusi degli utenti.

È vero che l’identificazione preventiva di questi ultimi da parte del gestore di una piattaforma potrebbe agevolare le indagini da parte del sistema giudiziario, gravato da un’enorme mole di contenzioso. Ma è una soluzione solo apparente. Già ora è possibile risalire all’indirizzo IP del dispositivo usato dall’utente, ma ciò non dà certezza circa la persona che lo ha usato.

Per account con identità certificata il problema sarebbe lo stesso: gli account si possono sottrarre, i dispositivi violare. Di nuovo, l’ingente raccolta di dati personali non sarebbe utile al fine prefissato.

Calenda reputa forse che la preventiva identificazione “responsabilizzerebbe” gli utenti, operando come deterrente da condotte riprovevoli. Ma la correlazione tra anonimato e tali condotte non è scontata: i social sono spesso un palcoscenico su cui molti esibiscono il proprio “ego”, completo di nome e cognome.

La progettazione di una misura

«Prima cerchi di comprendere se la cosa che proponi è giusta. Poi se è fattibile e poi come è fattibile. In questo caso dipende esclusivamente dalle regole imposte. E le regole le facciamo noi», ha affermato Carlo Calenda.

È vero l’opposto: la fattibilità non dipende dalle regole, ma sono le regole che devono basarsi sulla fattibilità dell’opzione di regolamentazione prescelta, vagliata con un’analisi ex ante, anche in termini di impatti. Altrimenti, le regole non raggiungono gli scopi cui sono finalizzate, come talora accade, forse anche perché si segue l’iter indicato da Calenda.

E quanto spiegato finora evidenzia come una norma impositiva dell’identificazione sui social comporti costi altissimi e un forte rischio di fallimento.

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