«La scienza non è democratica»: quanto inchiostro ha fatto scorrere questa frase del virologo Roberto Burioni, pronunciata nell’ormai lontano 2017, prima del Covid e della guerra in Ucraina

Alcuni l’hanno criticata perché confondeva la democrazia con una pura e semplice conta delle opinioni, altri invece perché sembrava sottovalutare le dinamiche intersoggettive nella produzione della conoscenza. 

Verità e democrazia 

Ma se questa frase è stata tanto discussa evidentemente è perché metteva il dito sulla contraddizione dolorosa che regge la società liberale: da una parte esaltiamo il principio giuridico per cui “uno vale uno” mentre d’altra parte fioriscono le eccezioni determinate dalla divisione del lavoro e del sapere. Sui vaccini, la parola di un virologo inevitabilmente pesa di più dell’opinione di un comune cittadino. Scacco matto: dov’è la vostra democrazia ora?

Nella sua forma più cupa, questo paradosso lo aveva enunciato per primo Alexis de Tocqueville descrivendo la società nata dalle grandi rivoluzioni, francese e americana: la storia umana appare come un processo di egualizzazione degli individui, che tuttavia rischia di produrre un nuovo ordine d’ineguaglianze attraverso la sottomissione a una classe di tutori incaricati di vegliare al nostro benessere. Tocqueville parlava di dispotismo, «un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte». La gestione tecnica delle questioni sociali lascia ben poco spazio alla volontà popolare.

Esisterebbe dunque opinioni “migliori” di altre? Se lo chiede anche la filosofia Gloria Origgi nel suo libro Caccia alla verità. Persuasione e propaganda ai tempi del virus e della guerra, uscito da poco per Egea, ben precisando come questo paradosso rischi, effettivamente, di mettere in crisi i principi basilari della vita democratica. L’egualitarismo epistemico non funziona, ma nessuno di noi ha voglia di sacrificare la democrazia. Il libro è un agile manuale sugli usi che si possono fare della filosofia per chiarirsi le idee di fronte al dibattito politico (dalla guerra ai vaccini) e contemporaneamente un confronto serrato con le diverse tendenze epistemologiche contemporanee, un tentativo di dialogo e di sintesi tra gli eredi di Michel Foucault e quelli Willard Van Orman Quine.

Che cos’è la verità?

La verità costituisce ciò verso cui tende la filosofia fin da Socrate e Platone. Il suo atto fondativo coincide con il rifiuto della dottrina relativista dei sofisti, che difendevano il pluralismo delle opinioni e il loro radicamento nelle diverse culture. Oggi che siamo diventati tutti scettici e costruttivisti, e che la verità viene considerata un concetto metafisico, filosofe di scuola analitica come Origgi incarnano una specie di estrema resistenza in nome della verità. D’altronde non è cambiato il nostro bisogno profondo di distinguere tra le informazioni, vere da false, per ridurre l’incertezza che ci circonda. La stessa classe intellettuale non avrebbe senso di esistere se non ci fosse, da qualche parte, una verità da accertare e se non le dessimo un valore positivo. 

Oggi la cosiddetta expertise è un pilastro della decisione politica ed economica. E non a caso, nella nostra epoca, la critica della verità va di pari passo con la diffidenza nei confronti della classe degli esperti che dovrebbe garantirla. 

Certo, scrive Origgi, certe verità sono soggette al dibattito, in quanto radicate nelle convinzioni morali e politiche, in una particolare “episteme”. Ma d’altra parte ci sono i fatti, come il Covid, e le loro conseguenze, come in quel caso la morte, e questo è vero “in qualsiasi episteme possibile che possiamo immaginare con la fantasia”. Le credenze scientifiche, dunque, hanno valore perché “sono quelle che hanno passato più esami, più procedure, più verifiche”.

Quali esperti?

La filosofa attira l’attenzione su un’analogia tra scienza e democrazia, e in una certa misura eventualmente anche dell’economia, ovvero che si tratta di sistemi di intelligenza collettiva. Le interazioni tra gli agenti, all’interno di un quadro di procedure, produce un risultato epistemico globale. La sintesi tra le posizioni più realiste e quelle più relativiste è che il mondo è essenzialmente governato da leggi stocastiche: in questo senso la verità è una tensione e un processo sempre in fieri.

Il problema è anche ammettendo che ci siano idee migliori e idee peggiori, non è facile capire dove andarle a cercare. Nemmeno un un premio Nobel è sufficiente per certificare che non si diranno mai baggianate: il chimico Kary Mullis ha diffuso teorie cospirazioniste sull’Aids mentre Luc Montagnier ha avallato il mito della memoria dell’acqua. Il Nobel non basta, certo, però aiuta. Nel senso che resta altamente probabile che il titolare di un Nobel in chimica sia più qualificato per parlare di chimica di un allibratore, ma anche di un semplice laureato in chimica, o di un premio Nobel in economia. Possono esserci delle eccezioni, proprio com’è possibile che il soffitto sopra di voi crolli in questo momento, ma è ragionevole ignorarle finché non si presenta una ragione per occuparsene. Perché i titoli, i certificati, i premi, le etichette che mettiamo sulle cose e sulle persone sono il modo in cui riduciamo la complessità del mondo per riuscire a vivere.

Anche di questo ci parla lungamente Origgi, che ha dedicato diversi studi ai meccanismi di costruzione della reputazione e dell’expertise. In effetti gli esperti non sono tutti uguali e ci sono vari criteri e indicatori per quantificare il prestigio e l’autorità, grandezze simboliche che ogni esperto costituisce a partire dalle sue opere, dal suo network, dal suo status, dalla sua onestà, dai suoi valori, eccetera. In sintesi, l’autorità epistemica dipende dall’impatto che l’esperto ha sul giudizio di altre autorità da noi riconosciute. Insomma, è proprio vero, la sua opinione si “pesa” e non si conta. Ed è in questo senso che la scienza non è democratica. E forse nemmeno la verità.

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