C’è vita oltre efficienza e puntualità. La città è per gli abitanti e i loro spazi

Nell’Ottocento solo circa il 20 per cento dell’umanità viveva in città; ora la percentuale si sta avvicinando al 75 per cento. Si tratta di un cambiamento tanto radicale per la specie umana quanto lo fu l’invenzione dell’agricoltura. In tutto il mondo, l’umanità è diventata un animale urbano. Eppure, la nostra capacità di pianificare, gestire e regolare la vita di una città rimane profondamente problematica. Uno dei problemi principali sta nella questione della scala. Le città sono diventate così grandi e complesse da rendere impossibile osservarle con continuità e nella loro interezza. Tutti noi abbiamo visioni parziali della città. Compreso il suo governo, che vorrebbe far credere il contrario. Inoltre, tutti distogliamo lo sguardo da quelle parti della città che non vogliamo vedere o che non riusciamo a immaginare. È molto difficile capire come il cambiamento di un solo fattore della vita urbana possa influenzarne un altro. Le città impotenti: così i finanzieri hanno sostituito gli urbanisti In movimento Un altro problema è che le città sono in continuo movimento. Cambiano, e spesso lo fanno più rapidamente dei progetti di urbanisti e pianificatori. La storia della pianificazione urbana è una storia di fallimenti: conseguenze impreviste, incomprensioni o il cinico desiderio di privilegiare il profitto rispetto al benessere sociale hanno lasciato cicatrici in quasi ogni città. E ognuno di noi ne conosce degli esempi. Le infrastrutture sono essenziali per le città, ma la tecnologia avanza così velocemente che gran parte di esse diventa obsoleta in poco tempo, pur essendo difficilissima da modificare una volta costruita. Come possiamo pianificare, sapendo che i nostri piani probabilmente genereranno nuovi problemi o falliranno del tutto? Possiamo farlo in modo da rispettare i bisogni molteplici di una società complessa, anziché favorire solo un gruppo al suo interno? Alla base del problema della pianificazione vi è la domanda: che cos’è una buona città? Quali valori vogliamo incorporare nel tessuto urbano? Potremmo pensare che alcune risposte siano ovvie: non desideriamo forse tutti una città in cui ogni abitante abbia accesso ad acqua, cibo, una casa e a una vita sicura, con un lavoro dignitoso e la promessa di un futuro? Eppure, anche un impegno di questo livello si è rivelato difficile da realizzare, soprattutto nelle città in rapida crescita del Sud del mondo, ma anche per le comunità povere e di migranti nelle città più ricche del Nord del mondo. In ogni grande metropoli, troppi abitanti affrontano quotidianamente la lotta per la sopravvivenza di base, con il futuro sbarrato dalla povertà e dalla mancanza di opportunità. Uno dei principali motori della crescita economica, e della forma stessa che una città assume, è il mercato immobiliare, insieme al settore assicurativo. Quando parliamo di pianificazione urbana, dobbiamo ricordare che non sono solo i pianificatori o i governi locali e nazionali a determinare i cambiamenti. Le istituzioni finanziarie e le grandi corporazioni internazionali sono attori decisivi nel costruire e distruggere le città. Queste istituzioni dichiarano che il loro dovere è verso gli azionisti, e questa logica – sancita per legge – consente di sviluppare le città ponendo il profitto di pochi come valore dominante, invece del bene comune. È difficile costruire una città “giusta” con simili criteri: quando una città è organizzata per arricchire solo una parte della sua popolazione, incorpora nella propria struttura sociale divisione e conflitto. Tre alberi dalla finestra e rigenerazione. Il futuro di Firenze si costruisce adesso Le virtù di una città Le virtù di una buona città, però, sono difficili da definire. Prendiamo, per esempio, l’efficienza. Tutti noi, in certi momenti, ci lamentiamo della sua mancanza: vogliamo che treni e autobus arrivino puntuali, che la burocrazia funzioni con rapidità, che elettricità, gas, acqua e smaltimento dei rifiuti operino senza intoppi. Definiamo “buona” una città in cui le infrastrutture funzionano semplicemente, e riconosciamo come “povere” quelle in cui esse sono inaffidabili o inesistenti. Di conseguenza, molti piani urbani mirano ad aumentare o mantenere tali efficienze. Il trasporto è il caso più emblematico. Le città, come gli squali, devono muoversi per restare vive: i lavoratori devono raggiungere il posto di lavoro, le merci devono circolare, i viaggiatori spostarsi, e le infrastrutture dipendono da questi sistemi. Così, la maggior parte delle città cerca di aumentare la velocità degli spostamenti interni e verso l’esterno. E così, nascono autostrade a più corsie che attraversano quartieri residenziali senza tener conto dei problemi sociali che creano. A Caracas, per esempio, una grande autostrada a sei corsie separa la gigantesca favela di Petare dai quartieri ricchi della capitale venezuelana. Da un lato, case di scarsa qualità, ammassate attorno a vicoli senza spazi verdi né servizi; dall’altro, grattacieli di lusso con piscine, giardini, negozi e ristoranti eleganti. Lungo l’autostrada c’è un solo ponte: lo attraversano, mattina e sera, i lavoratori delle favelas diretti a servire gli appartamenti di lusso. Altrimenti, non esiste alcun passaggio tra le due aree urbane. La città è divisa in modo assoluto dalla strada: ricchezza da un lato, povertà dall’altro; la mobilità dei trasporti ha interrotto la mobilità economica e sociale. Problemi simili si riscontrano a Londra o New York. Il prezzo delle case dipende dalla vicinanza alle linee della metropolitana che portano al lavoro: più si è lontani da una stazione, più l’abitazione è economica. Così, chi ha meno mezzi deve viaggiare più a lungo e conduce una vita “meno efficiente” e, come recita il proverbio, il tempo è denaro. L’infrastruttura della metropolitana, nata per migliorare l’efficienza urbana, finisce quindi per consolidare la divisione sociale. Carissimo immobile. Il meccanismo diabolico della rendita urbana Città come macchina? Il più celebre tra i pianificatori moderni, Le Corbusier, ha avuto qui un’influenza disastrosa. Sosteneva che la città fosse una macchina e, come tale, dovesse funzionare nel modo più efficiente possibile. Un’idea seguita poi da molti altri urbanisti. Ma ciò che rende una città davvero vivibile è proprio ciò che la distingue da una macchina: spazi di incontro e svago, un senso della storia, l’assenza di paura, la gioia di scoprire l’imprevisto. Meglio una passeggiata che la puntualità assoluta. Le Corbusier e il suo gruppo pubblicarono un manifesto destinato a segnare profondamente la storia dell’urbanistica modernista. Vi si affermava che l’efficienza è una virtù, e che per ottenerla occorre «razionalizzare» e «standardizzare»: più gli edifici sono identici, più la città sarà efficiente. Ogni appartamento, ogni casa doveva essere uguale alle altre. «I bisogni individuali», concludevano, «sono privi di reale giustificazione». Scritto nel 1928, in un’epoca in cui fascismo e comunismo si contendevano il controllo delle città, questo attacco all’individualità assume oggi connotati inquietanti. Il problema della pianificazione urbana è proprio questo: le persone aspirano a essere individui, a costruire le proprie vite e i propri spazi. E questo, a mio avviso, è non solo inevitabile, ma anche necessario e positivo. Dovremmo riflettere di più prima di sperare che le nostre città diventino sempre più efficienti. Simon Goldhill, professore di greco all’Università di Cambridge e co-direttore di Humanity’s Urban Future, parteciperà a Roma in comune: pratiche urbane di democrazia, prima edizione del Festival About a City a Roma, che si terrà il 21 e 22 novembre alle Industrie Fluviali, a cura della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli in collaborazione con Roma Capitale.