Il 13 luglio comincerà la discussione del disegno di legge Zan (ddl Zan) in aula al Senato. Un esame dei profili più controversi del testo mostra che forse essi sono meno critici di quanto qualcuno dice.

Identità di genere

Una delle obiezioni al ddl Zan riguarda il concetto di identità di genere, perché esso sarebbe estraneo all’ordinamento, e comunque non sufficientemente chiaro. Le cose stanno diversamente.

L’espressione è presente nella Direttiva sull’attribuzione della qualifica di rifugiato, che richiama l’identità di genere tra i motivi di persecuzione. Se ne trova poi menzione nella Direttiva in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, ove si considera la violenza contro una persona a causa, tra l’altro, della sua identità di genere. «Identità di genere» è presente anche nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (la Convenzione di Istanbul del 2011). Inoltre, nell’ordinamento penitenziario si enuncia il divieto di discriminazioni «in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale (...)». E l’espressione è presente nelle leggi antidiscriminatorie di molte regioni (come quelle di Piemonte, Marche, Liguria, Toscana).

Quanto alla giurisprudenza, sin dal 1985 la Consulta ha riconosciuto un «concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato», in base a cui acquistano rilievo l’insieme di fattori psicologici e sociali che contribuiscono a determinare una «concezione del sesso come dato complesso della personalità». Nel 2015 la Corte ha parlato di «aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere», come espressione del diritto all’identità personale e strumento per la realizzazione del diritto alla salute psicofisica. Il diritto all’identità di genere – «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona» – è stato ribadito dalla Consulta nel 2017, come «aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto». Insomma, la definizione adottata dal ddl Zan.

Va anche rilevato che le espressioni “orientamento sessuale” e “identità di genere” sono spesso presenti congiuntamente in discipline di altri paesi analoghe al ddl Zan. Se tali espressioni fossero sostituite da «omofobia e transfobia» (proposta Scalfarotto), andrebbero comunque definite, sulla falsariga di quel che avviene nell’aricolo 1 del ddl Zan, per la determinatezza della fattispecie penale; e comunque lascerebbero prive di tutela persone che non abbiano concluso la transizione di genere, nonché persone oggetto di atti lesivi per la loro eterosessualità, con relativi dubbi di costituzionalità.

Forse, tuttavia, avrebbe necessitato di essere delineata specificamente la condotta di discriminazione, come in Francia, ove essa è prevista quale autonoma figura di reato.

Libertà di espressione

Il ddl Zan è oggetto di obiezioni poiché fa salva la libertà di espressione purché essa non si traduca in condotte «idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti». Innanzitutto, la libertà di espressione non è assoluta. La Consulta ha più volte affermato che essa incontra limiti nella tutela di valori di pari rango, dalla dignità umana all’identità personale, dalla reputazione alla libertà personale, inclusa quella morale e sessuale. La norma citata potrebbe essere ritenuta pleonastica – la libertà di espressione è tutelata dalla Costituzione – come altre vigenti che richiamano principi costituzionali, ma appare del tutto “innocua”. Peraltro, clausole di protezione della libertà d’espressione (free speech) sono presenti in normative analoghe al Ddl Zan di paesi anglosassoni.

Si è detto che il ddl Zan limiterebbe, mediante la previsione di sanzioni, la manifestazione di idee contrarie, ad esempio, a matrimonio egualitario, adozioni per coppie omosessuali e così via. Anche questo non è vero. La propaganda di idee – sanzionata se esse sono «fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico» – non viene estesa dal ddl Zan a sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità. Tantomeno, ai sensi di tale legge, potrebbe essere punita la mera manifestazione di idee, che sta a un livello inferiore alla propaganda. Quindi, chi esprima convinzioni personali, dettate dalla propria morale, religione o altro, o faccia in qualunque modo propaganda delle stesse non commette reato. Inoltre, come affermato dalla Consulta, rientra nella libera espressione «la critica della legislazione e della giurisprudenza» nonché l’attività «diretta a promuovere l’abrogazione di qualsiasi norma». Restano al di fuori del perimetro di tale libertà le condotte costituenti violenza, istigazione alla violenza o partecipazione ad associazioni che abbiano come fine la violenza per le cause indicate dal disegno di legge.

È stata criticata la parte della norma che “fa salve” le «condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte». Il richiamo alla “legittimità” non è stato compreso da taluni. Esso serve a chiarire che la norma stessa non introduce scriminanti, non “salva” condotte non legittime, sanzionate per altri versi dall’ordinamento, cioè non restringe in alcun modo l’area di illiceità derivante da norme diverse, in ambito penale o civile.

“Reati di opinione”

Dunque, l’espressione di avversione per omosessuali, transessuali ecc. e i loro diritti, anche con proteste e manifestazioni, non è penalmente rilevante. Il ddl Zan chiede che vi sia un «pericolo concreto» dell’attuazione di condotte violente o discriminatorie, cioè un’idoneità delle parole a essere concretamente recepite e tradotte in azioni lesive.

In altri termini, non basta l’idoneità in astratto di un discorso istigatorio: il giudice deve verificare le condizioni reali in base alle quali si possa reputare che l’istigazione abbia avuto di fatto la possibilità di essere accolta e, quindi, l’atto violento o discriminatorio abbia corso il pericolo effettivo di essere compiuto. Pertanto, il ddl Zan non introduce “reati di opinione”, essendo necessari la verifica e l’accertamento di precise condizioni perché la manifestazione di idee possa reputarsi lesiva.

Si consideri, peraltro, che i reati “di pericolo” – nello specifico, di pericolo concreto, da tenere distinti dai reati di pericolo astratto – non rappresentano una novità nel nostro ordinamento: sono tali, tra gli altri, i delitti di istigazione (e apologia) presenti da sempre nella legislazione, a cominciare dalla figura generale di cui al codice penale.

La Giornata nazionale

Secondo alcuni, la Giornata nazionale per promuovere «la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere» limiterebbe la libertà delle scuole. Ma il ddl Zan prevede lo svolgimento delle attività della “Giornata” solo ove ciò sia conforme al “piano triennale” e al “patto educativo”, strumenti di esercizio dell’autonomia scolastica, in attuazione del principio della libertà di insegnamento. Peraltro, pur “celebrando” la giornata, le scuole non sarebbero comunque obbligate a “celebrare” certi modi di essere e sentirsi. Esse potrebbero anche manifestare opinioni in senso critico alla normativa – resta salva la libertà di espressione, come detto – ma sempre con l’obiettivo del rispetto e dell’inclusione, nonché del contrasto a pregiudizi, discriminazioni e violenze: canoni di civiltà, a prescindere da una giornata dedicata.

© Riproduzione riservata