Ricordo come tutto è cominciato. Un giorno papà si è srotolato una calza e mi ha fatto vedere il tallone, indicandomi un punto dove compariva una piccola cicatrice. «Me l’hanno fatta in carcere». Io la guardai e rimasi zitto, ma dentro sentii salire una rabbia che si tramutò in un senso di odio profondo verso tutti. Lui mosse il dito seguendo la linea della cicatrice. «Il carcere è stata la tragedia della mia vita». Poi tacque.

È da questo episodio, accaduto nel 2011, proprio durante le prime fasi della “Primavera siriana”, che ho deciso di cominciare a scrivere per esorcizzare la tortura. Essa è stata il dramma della vita di mio padre: per anni ha nascosto a mia madre, Grazia, cosa gli fosse accaduto in carcere. Per me, figlio, è diventata un'ossessione cercare di guardare in faccia quegli spettri appartenenti a un passato lontano. Da qui nasce il terzo capitolo di una trilogia cominciata nel 2013 con La felicità araba (Add editore). Ne La nostra Siria grande come il mondo io e mio padre abbiamo fatto i conti con l’idea del non ritorno. Abbiamo vissuto anni, almeno fino al 2015, credendo che in Siria ci saremmo tornati, dopo un lungo esilio. Così non accadrà. Allora abbiamo voluto testimoniare le nostre due esistenze per creare memoria.

La vita di mio padre

La prima è quella di Mohamed, nato in Siria nel 1943, in un piccolo villaggio al confine con il Libano. Entra in contatto con le idee panarabe sul finire degli anni Cinquanta. Erano riunioni segrete con «non più di cinque o sei affiliati, in cui si parlava di comunismo e leggevamo libri come Il partito comunista in Italia di Palmiro Togliatti, tradotto in arabo come gli scritti di Gramsci, di Trockij e di Marx». Il mondo arabo bolle, nuove idee circolano, e i giovani chiedono il cambiamento. Il primo arresto arriva di lì a poco.

«Quando ai poliziotti sembrava di aver fatto abbastanza e stavano per rimandarmi a casa, intervennero gli uomini dei servizi segreti, dicendo che non era quello il modo in cui trattare i traditori e che, anche se avevo poco più di vent’anni, non per questo non ero pericoloso. “È più pericoloso questo che non usa le armi ma parla, di chi ha una pistola a casa”, dissero». Da questa esperienza nasce il pudore o, forse, la voglia di non raccontare per sopravvivere a quei ricordi.

Di lì a poco, quel ragazzo di appena venticinque anni deve lasciare la Siria, il suo villaggio natale, Talkalakh. Va in Libano e da lì in Kuwait, l’El Dorado di allora. A Kuwait City viene a sapere che Leila Khaled e Salim Issaoui terranno un incontro. Sono diventati due icone dopo aver dirottato il boeing 707 della Twa che da Los Angeles era diretto a Tel Aviv. Quando si rivedono, Salim, di Homs come Mohamed ed ex compagno di partito, abbraccia l’amico di cui aveva perso le tracce. Quello sarà l’unico e ultimo incontro. Loro hanno scelto un tipo di lotta che mio padre non condivideva.

A ripresentarsi, come uno spettro malefico, è ancora il carcere. Questa volta la prigione è nel deserto: qualcuno ha denunciato che Mohamed ha un passaporto falso. Dopo sei mesi viene scarcerato per essere espulso. «Ci caricarono su un pullman con cui attraversammo il deserto in direzione del confine con l’Iraq. Quando arrivammo al confine ci fecero scendere dicendoci di varcare a piedi la frontiera, poi si girarono e se ne andarono, lasciandoci lì da soli. Davanti a noi, in un deserto asfissiante, avevamo la città di Safwan, primo approdo dell’Iraq, città di cui non sapevo nulla e in cui non conoscevo nessuno».

Immaginiamo la scena, la notte e quel nonluogo. «Rimasi immobile per qualche minuto, non sapevo bene cosa fare». Dall’Iraq fu difficile uscire. Ci vollero mesi e l’aiuto fondamentale di una ex fidanzata. Poi il Kuwait, nuovamente. Ricominciò a lavorare, con documenti falsi. Ma ancora, come una condanna, le cose non potevano andare bene. E questa volta le autorità lo misero di fronte alla possibilità di andarsene o di essere consegnato ai siriani. La scelta fu un volo verso la Spagna. Poi un visto per l’Italia. L’arrivo a Lucca e a Milano. Nel capoluogo Lombardo mette su una attività di import-export. E un giorno squilla il telefono. «Signor Hamadi, mi chiamo Grazia, la chiamo da una scuola che insegna inglese commerciale. È interessato?». Quello è il primo contatto che ha con mia madre, una donna con una vita differente: un matrimonio alle spalle; la perdita del padre da giovanissima. E, anni dopo, il mio arrivo. 

Il dialogo

In questo testo a quattro mani ho voluto ricostruire l’atmosfera conciliante fra i miei genitori, sempre pronti a mettere in discussione il loro punto di vista sulla fede. Una cattolica e l’altro musulmano. Una rarità, oggi, in un tempo in cui lo scontro sembra inevitabile. Io sono cresciuto con un padre che partecipava alla messa di Natale e con una madre sempre pronta a imbandire la tavola per il Ramadan. Il dialogo, quello fra loro due, almeno fino alla scomparsa di lei, era basato su una autentica curiosità.

Una cosa che parve impossibile ad alcune delle suore che gestivano la scuola cattolica dove mio padre mi iscrisse. «Volevano mettermi in difficoltà», ricorda mio padre nel testo. «Per tutto il tempo continuarono a chiedermi come dovevano gestire “questo musulmano” perché, dicevano con un tono vagamente di sfida: “Lo sa che nel nostro menù della mensa abbiamo anche il maiale”». Non capivano da dove venisse quell'uomo che ripeteva come un mantra: «Va bene, nessun problema».

A distanza di vent’anni da questo ricordo, mio padre, ormai in pensione, passa le sue giornate a fare la guida ai turisti nelle chiese di Milano. «Che cosa? Un musulmano che spiega ai cattolici gli affreschi della chiesa?» direbbero in molti. Ma questa esperienza non è che il frutto dell'eredità che porta con sé la mia famiglia e molti altri arabi: un islam dialogante, che ha saputo convivere con le minoranze.

Nella foto: Mohamed e Shady Hamadi

Il sogno

Questa storia è, poi, quella di un padre e di un figlio consapevoli che un “ritorno” non ci sarà. Per questo abbiamo scelto di sognarlo.

Siamo al confine. Papà mi stringe la mano destra. Camminiamo. I due soldati, giovani, ci guardano seduti su due sedie in plastica. Hanno messo i fucili in un angolo. Uno di loro si alza. Ha gli occhi azzurri. «Bentornati, siete mancati da molto!» ci dice. «Da tutta una vita» risponde papà. I soldati sorridono, indicandoci di proseguire dritto. Noi camminiamo, mano nella mano.

Talkalakh è addobbata a festa. «Tutta la Siria è in festa», grida un bambino. «Stanno tornando, stanno tornando tutti». Non capiamo di chi parlano. «Stanno tornando...». «Chi, chi?». «Non lo sapete?» ci domanda sorpreso. «Gli esiliati. Sono tantissimi, almeno tre generazioni. Ogni abitante ha un parente che torna». Poi comincia la lista: «C’è Abu Fadi, torna suo zio, a Parigi da trent’anni perché ha scritto articoli contro il vecchio regime; Nawal e Samar, due sorelle, arrestate perché avevano fondato una lega femminista: ora tornano dal Canada, dopo cinquant’anni. Michael, scrittore cui hanno spezzato le dita, abitava in un piccolo appartamento a Buenos Aires: sua madre lo rivede dopo venticinque anni. Chissà se lo riconoscerà. Fadi, è quello là, lo vedete? È appena rientrato dalla Germania. Un giorno trent’anni fa, era scomparso. Lo hanno liberato dal carcere dopo vent’anni. L’accusa? Fondamentalismo. Ma lui è ateo e ha sempre bevuto vino e arak. Era poi scappato in Germania. Lia, eccola, sta entrando in quel portone, quello vicino al benzinaio tutto addobbato di fiori. È scappata in Libano durante la guerra. Chi è sopravvissuto della sua famiglia ha ricostruito la casa dove sono morti anche i suoi figli. E voi?».

Papà sorride. Ci avviamo al cimitero. Troviamo la tomba di mio nonno e lì, ad attenderci, mia madre. Insieme a lei continuiamo a camminare, dopo aver posato un fiore sulla lapide. Andiamo verso casa. Davanti alla porta, scritta sul cemento, in rosso, compare la parola “Dio”. Entriamo, la casa è addobbata a festa. I dervishi danzano, roteano, come quando il mio bisnonno la inaugurò.


Mohamed e Shady Hamadi sono autori del libro La nostra storia grande come il mondo, edito da Add editore

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