Sembra un aggettivo ingombrante quel “tradizionale” e invece presuppone la riscoperta di un’identità che ci appartiene. E che rivive in questi giorni al premio Loano, in programma in Liguria
«Tradizionale» è un aggettivo ingombrante. Vederlo nell’intestazione di un festival può legittimamente suscitare qualche sospetto: è il caso del premio Loano per la musica tradizionale italiana, che torna per la diciannovesima edizione dal 26 al 28 luglio, in Liguria.
Il cervello corre subito ai «buffi stupidi costumi locali» di un famoso sketch di Corrado Guzzanti. «In un’epoca in cui si viaggia in internet e per tutto il mondo, si parla inglese, si vedono film americani, è facile smarrire la propria identità nazionale», diceva Guzzanti. «E allora? E allora ricorriamo a buffi stupidi costumi locali. Reimparate delle cose della vostra regione di cui non ve ne è mai fregato niente!».
E via a ballare tarantelle, a cantare le canzoni delle mondine, a riscoprire le ninne nanne della nonna. Il rapporto tra la globalizzazione del gusto e dei consumi che ha attraversato il mondo nell’ultimo mezzo secolo e l’emergere di un interesse per le musiche «di tradizione» è in realtà innegabile.
Una parte del pubblico si rivolge a una nicchia di mercato che le dà ciò che vuole sentire: autenticità, o semplicemente qualcosa di diverso da quanto passa in radio o sui social. Allo stesso tempo… che significa «tradizionale» oggi? La maggior parte dei musicisti che oggi si occupa di «tradizione» ha imparato a suonare da dischi, ed è cresciuta in un mondo dominato dai media…
Il patentino di «tradizionalità»
L’altro sospetto che si porta dietro il concetto di «musica tradizionale» è quello di essere, in qualche modo, qualcosa di immutabile, ancestrale. Fare «musica tradizionale» implica affrontare discorsi che riguardano non tanto ciò che è «bello» e ciò che è «brutto», ma ciò che è «giusto» oppure «sbagliato».
Rispetto a che cosa? Alla «tradizione», appunto, come se ci fosse un patentino di «fedeltà», una scheda a punti per misurare il grado di «tradizionalità» di un musicista. Canta in dialetto? +4 punti. Usa la chitarra elettrica? –3 punti. Suona strumenti tradizionali? +8 punti.
Fermi tutti però: che cos’è uno strumento «tradizionale»? L’organetto diatonico, centrale in buona parte dei repertori popolari italiani, è uno strumento dell’era industriale. Il violino è uno strumento della musica colta, ma è anche usato in innumerevoli generi da ballo: ad esempio da Dina Staro, Premio Città di Loano – Fondazione A. De Mari 2023 per la sua carriera di studiosa di danze popolari, ma anche di musicista capace di farsi tramite delle tradizioni del «suo» Appennino bolognese… La lira calabrese, quasi sparita dall’uso, è tornata in auge negli anni ottanta del Novecento per essere usata in organici con altri strumenti che in origine non la prevedevano (come fa ad esempio Ettore Castagna, a Loano a presentare il suo disco Eremìa).
È ancora «tradizionale», se viene accoppiata a strumenti elettronici? E che dire della canzone napoletana, che è stato il premio repertorio popular globale, diffuso attraverso i dischi e l’industria degli spartiti a stampa? Peppe Barra (che sarà a Loano il 26 luglio, a presentare un disco – Cipria e caffè – che mescola mandolini e sintetizzatori analogici) è tradizionale solo perché canta in napoletano?
I musicisti
È inutile farsi girare la testa. La cosa più semplice, per parlare di «musica tradizionale» oggi, è guardare ai musicisti che la fanno. Che sono, inevitabilmente, uomini e donne del nostro tempo. È il caso di Rachele Andrioli (vincitrice del Premio Loano per il miglior album, Leuca, e del Premio Giovani, riservato agli under 35): canta nel suo dialetto, il salentino, che non è in alcun modo una lingua più «antica» dell’italiano che parla normalmente, né meno viva.
Oppure di Alessandro D’Alessandro, vincitore lo scorso anno. Suona l’organetto diatonico, che ha imparato al suo paese fin da piccolissimo. Però ci suona le canzoni dei cantautori, di Elvis, e filtra il suo strumento con distorsori, delay, effetti… O dei Teres Aoutes String band, che cantano in provenzale e occitano ma amano i suoni americani. O ancora di Giuseppe Moffa (che a Loano 2023 presenterà il suo nuovo disco Uauà): zampognaro – così dice la sua carta d’identità – ma anche chitarrista blues. Perché le cose non dovrebbero poter convivere?
Decidere che cosa sia «tradizione» difficilmente compete a qualcuno. Si può provare a raccontarne i molti significati – ed è già un’impresa da far tremare i polsi. Rimane, tolta la muffa delle sovrastrutture, una rete di pratiche musicali vive e vivaci, che raccontano del mondo di oggi esattamente come qualunque altra musica, e forse anche di più.
Jacopo Tomatis, direttore artistico del Premio Loano, è musicista e musicologo. Insegna all’Università di Torino
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