Lo Zimbabwe, lo stato-nazione dal quale provengo, non ha mai conosciuto la pace. Quando i colonizzatori britannici sono venuti a occupare questa terra, sono state esercitate varie forme istituzionalizzate di violenza sui neri da parte dei bianchi. I funzionari della British South Africa Charter Company, la compagnia privata fondata da Cecil Rhodes nel 1889, i cui membri erano le avanguardie dell’Impero britannico, usavano mezzi brutali per mettere in ginocchio la popolazione locale.

La colonna di pionieri di Cecil Rhodes, formata da 500 uomini equipaggiati di un assortimento di armi, tra cui le mitragliatrici Maxim, marciò sull’area che ora è la città di Harare, capitale dello Zimbabwe, per annettere la terra nel 1893, formalmente per l’Impero britannico.

La conseguente violenza economica vide imporre una tassazione in denaro sulle abitazioni in cui i neri vivevano al momento dell’arrivo degli invasori. A quel tempo, qui non esisteva un’economia monetaria, così questa richiesta di denaro costrinse la popolazione a mettersi al servizio lavorando per la comunità dei colonizzatori nei termini offerti da questi ultimi, al fine di ottenere il denaro richiesto per soddisfare questo sistema di tassazione. Altre forme di violenza economica includevano tassi di pagamento differenti per gli stessi prodotti a seconda del colore della pelle del produttore, con i produttori neri che venivano pagati meno dei bianchi. Esistevano anche restrizioni sui beni che i neri potevano mettere in commercio.

L’amministrazione coloniale, inoltre, esercitava una violenza di tipo nutrizionale, accantonando dal punto di vista commerciale i grani tradizionali in favore del mais, meno nutriente, che era stato introdotto dai colonizzatori europei.

La violenza metafisica comprendeva la denigrazione delle credenze precoloniali e di altri sistemi simbolici, come quelli religiosi, politici, culturali, giuridici, linguistici. Tale violenza metafisica era parte di una deliberata strategia britannica di creare un Impero metafisico. Con l’evolvere di questo nuovo stato coloniale venivano perpetrate varie forme di violenza sui neri; queste includevano la messa al bando dei partiti politici dei neri, atti di brutalità esercitati dalla polizia, persecuzioni giudiziarie, rapimenti, detenzione e tortura.

La violenza rappresentata dalla negazione della libertà era codificata da leggi che determinavano cose come: i luoghi in cui potevano stare i neri e l’ora, dove potevano ricevere un’educazione, dove un nero poteva acquistare un terreno o una fattoria, e quale tipo di bevanda alcolica poteva essere venduta e dove poteva essere bevuta.

La risposta imperiale

Nel 1965, la comunità dei coloni britannici del paese, che ora si chiamava Rhodesia, dichiarò la propria indipendenza dalla Gran Bretagna. Questa dichiarazione d’indipendenza da parte della popolazione bianca era una reazione alla politica di decolonizzazione britannica attraverso la negoziazione dell’indipendenza con le sue colonie che si verificò negli anni Cinquanta.

La nuova politica era la risposta imperiale ai disordini nelle colonie in cui scoppiarono agitazioni politiche in favore di una indipendenza che prevedesse il dominio della maggioranza. Dato che, in uno stato a predominanza nera, il dominio della maggioranza avrebbe significato dominio dei neri, la comunità dei coloni della Rhodesia si attivò per prevenire ciò, dichiarando unilateralmente l’indipendenza dalla Gran Bretagna.

I tumulti dei neri che volevano il dominio della maggioranza in Rhodesia proseguirono anche dopo la Dichiarazione unilaterale d’indipendenza del 1965. Di conseguenza, si praticarono nuove forme di violenza a base razziale.

Per esempio, lo stato coloniale, temendo di venire sopraffatto da una popolazione nera in rapida crescita, istituì segretamente delle politiche di controllo che includevano la legatura delle tube delle donne nere in età fertile senza il loro consenso. Allo stesso tempo, gli sforzi per trattenere la popolazione bianca indussero lo stato coloniale a istituire regole repressive allo scopo di impedire l’emigrazione dei cittadini bianchi. Lo Zimbabwe è sempre stato un paese violento e repressivo.

La violenza costitutiva

Il risultato di tutto ciò fu che, con l’indipendenza del 1980, lo Zimbabwe aveva ereditato uno stato violento. Ed essendo nato attraverso una brutale lotta di liberazione, durante la quale furono commesse atrocità da entrambe le parti su cui non mi soffermo, lo stato nazionalista che subentrò non fece che assumere le medesime caratteristiche di violenza.

La sua retorica militare si concentrava sul conflitto, l’antagonismo, l’ostilità, ed è questa la filosofia diffusa fino a oggi tra le istituzioni zimbabwesi. L’antagonista e il nemico è qualsiasi entità, inclusi i cittadini dello Zimbabwe e le loro organizzazioni che non sottostanno ai desideri dei dominatori militari.

Denunce di intimidazioni e torture effettuate da parte delle autorità del partito Zanu-Pf (Unione nazionale africana dello Zimbabwe Fronte patriottico) cominciarono ad arrivare già dal 1980, anno dell’indipendenza. Qualche anno più tardi un vero e proprio genocidio passò ignorato agli occhi del mondo. Da allora, la violenza che si serve delle atroci tattiche della lotta di liberazione divampò laddove il potere veniva contestato, solitamente durante i periodi elettorali, ma anche in altre occasioni.

La violenza costitutiva dello stato-nazione zimbabwese non è un fatto storico isolato. Gran parte del mondo ha sperimentato la stessa violenza sfaccettata che ho descritto riguardo al mio paese perpetrata per mano dell’Impero occidentale. Questa è la norma nel quadro di ogni impresa imperiale e viene esercitata da parte del quarto occidentale del mondo sul resto del globo, un processo che è iniziato nel XV secolo.

In alcuni casi, come in quello degli Usa, il processo è stato anche più efferato, con intere nazioni spazzate via tramite genocidio. Non ci sorprende che questa violenza – fisica, psicologica, politica, economica, metafisica e genocida – sia troppo spesso all’ordine del giorno nei paesi postcoloniali. Questi atti brutali sono strutturati all’interno dell’ordine globale in cui viviamo, e sono radicati in quelle strutture dell’Impero occidentale che cominciò a formarsi circa mezzo millennio fa.

Ciò significa che l’Occidente, con tutta la sua tecnologia e i sistemi di credenze e le sue pratiche, è costruito su queste molteplici, ininterrotte forme di violenza, che ha esportato nel resto del mondo e che sono compiute con lo stesso entusiasmo nei paesi postcoloniali quanto lo furono dagli stati imperiali e coloniali.

Ovviamente, la pace non può prosperare in simili condizioni. Solo la violenza prospera in condizioni di violenza. È un fatto ben noto che la violenza genera violenza, oggigiorno lo vediamo in tutto il mondo, anche nelle varie case dell’Impero. La violenza imperiale ha creato condizioni tali per cui molte persone hanno lasciato le loro case per migrare verso i paesi imperiali.

I cittadini dei paesi coloniali sono infastiditi da ciò e infliggono violenza sugli immigrati in vari modi, anche tramite la brutalità istituzionale che viene giustificata come necessità amministrativa, una giustificazione che veniva data anche durante l’epoca coloniale. Al contempo, i residenti delle nazioni imperiali che possiedono un senso della pace e della giustizia più sviluppato contestano quei loro compatrioti che infliggono abusi sugli immigrati tanto che ne derivano conflitti interni.

Come promuovere la pace?

Chiaramente è una situazione senza vincitori. Che cosa fare, dunque, per promuovere la pace? Certo, la struttura mondiale che ha generato i tipi specifici di violenza della nostra epoca non può essere facilmente smantellata. I più di sette miliardi di abitanti di questo pianeta oggi sono tutti legati a tale sistema globale e integrati in esso.

Una risposta c’è, e personalmente credo che questa risposta sia più semplice di quanto si possa pensare. L’ordine mondiale violento in cui viviamo ora è stato determinato da un certo modo di pensare gerarchico. La soluzione sta nello smantellare i modi di pensare “razzializzati” e gerarchici basati su tratti demografici come il genere, il sesso, la religione, la nazionalità, la classe e così via, che sono stati e continuano a essere i mattoni dell’Impero nel corso della storia, in tutto il mondo.

La nostra attuale amministrazione globale non investe grandi somme di denaro nell’influenzare i comportamenti di gruppo. I metodi per influenzare i comportamenti di gruppo vengono insegnati in tutto il mondo nei corsi di discipline come gli studi di marketing ed economia, gli studi di politica e propaganda. Corsi che insegnano agli studenti come definire un gruppo target segmentando la popolazione secondo un range di tratti demografici.

Quindi, i desideri della popolazione vengono manipolati, essendo il fine di questa manipolazione non il bene delle persone interessate e neanche un incremento della pace, ma la massimizzazione di ciò che si definisce “profitto”. Che può essere un profitto umano finanziario, politico, sociale o di altro tipo.

Ma io suggerisco che questa cosa che chiamiamo “profitto” in realtà non esiste. In termini assoluti, la nozione di profitto è una fallacia. Nella dimensione dell’umano, e del mondo, in cui viviamo fisicamente, gli eventi e i fatti sono collocati nel tempo e nello spazio. Un valore che appare in un tempo e uno spazio è un valore che è stato rimosso da un altro spazio e da un altro tempo. Un sistema basato sul profitto, sul ricevere più di quel che è dato, è un sistema di sfruttamento.

I sistemi di sfruttamento si risolvono in concentrazione e deficit. Un sistema che produce concentrazione da un lato e deficit dall’altro è un sistema in disequilibrio. Esso è per sua natura instabile e quindi non sostenibile. Come siamo giunti a investire in un sistema instabile, insostenibile destinato a condurci al tracollo?

Sistemi di conoscenza

Poco meno di quattro secoli fa, un filosofo francese scrisse un lungo testo sulla natura dell’incertezza, che è la natura della conoscenza senza il dubbio. Una frase di questo lungo testo è giunta fino a noi: «Penso, dunque sono», che ora è una delle frasi più celebri e conosciute della filosofia occidentale.

In questa concettualizzazione del mondo – «Penso» – c’è l’unica prova diretta e irrefutabile che ogni persona ha della propria esistenza. Ogni altra evidenza potrebbe essere falsa. «Penso» fu detto per indicare «sono», cioè l’essere di una persona, quindi la posizione venne a essere formulata come: «Penso, dunque sono».

Per me, che fin dall’infanzia ho avuto la fortuna di accedere a un altro sistema di conoscenza oltre a quello occidentale, esperienzialmente piuttosto che intellettualmente, i pericoli di una simile epistemologia sono lampanti.

Prima di tutto, come ben si sa, la famosa frase è solo una versione breve di ciò che era espresso originariamente. L’espressione originale includeva l’utile natura del dubbio nel verificare la conoscenza: io dubito, quindi penso, quindi sono. Ma quegli stessi processi di pensiero deputati a ottenere la conoscenza attraverso il dubbio rifiutarono di dubitare, optando, invece, per la certezza del «Penso, dunque sono», cioè la versione che è divenuta valuta comune in filosofia.

Quali sono gli effetti di questa valuta comune filosofica? Pensare è portare avanti una narrativa interiore. Il procedimento della narrativa interiore è costituito da un lato dal processo – come narriamo a noi stessi – e dall’altro lato dal contenuto – che cosa narriamo a noi stessi.

Equiparare il processo di pensiero o di narrazione interna di qualcuno – o l’“io” – con l’essere, porta a molteplici errori di conoscenza. Permettetemi di nominarne due, che si riferiscono alla differenza. Consideriamo il caso di una mente che non è la nostra. Assumiamo che questa mente che non è la nostra conservi un contenuto differente dai contenuti della nostra mente, o che utilizzi un sistema differente di evocare e organizzare contenuti e, quindi, di veicolare significati, o che sia differente dalla nostra mente riguardo al contenuto e al processo.

Coloro che credono che essere nel mondo e conoscere nel mondo sia basato sull’«io penso», possono facilmente giungere alla conclusione che una mente che utilizza diversi contenuti ai fini della rappresentazione e differenti processi per combinare i contenuti non stia affatto pensando, e quindi non rappresenti affatto un “io”.

Ora procediamo assumendo che questa mente che non è la nostra sia incarnata in un corpo. È semplice osservare come tale essere incarnato, che non siamo noi, che non pensa come pensiamo noi, e che quindi viene ritenuto non pensante, molto verosimilmente evochi nella nostra mente il contenuto «Essi non pensano, quindi essi non sono».

Dato che il pensatore di «Penso, dunque sono» percepisce se stesso come umano, coloro che pensano in modo differente vengono percepiti come esseri non come me, o non umani. Come sappiamo, questo rinnegamento del valore umano di altri esseri umani ha l’effetto di alzare il valore umano che attribuiamo a noi stessi; e sappiamo anche che tale meccanismo di attribuzione differenziale di umanità è stato responsabile di gran parte della violenza che gli esseri umani hanno esercitato gli uni sugli altri.

Non faccio questa affermazione per gettare discredito sull’Illuminismo. È molto difficile per me, che non sono personalmente legata alla storia dell’Europa e alla sua narrativa, immaginare come fosse qui la vita nei Secoli Bui fino al Medioevo, e quanto profondamente quella rivoluzione del pensiero che fu l’Illuminismo fosse necessaria.

Un pensiero nuovo

La mia osservazione intende aggiungere la mia voce a quanti affermano che l’Illuminismo dei secoli passati è giunto al capolinea, così che tutti noi che oggi viviamo su questo pianeta abbiamo un gran bisogno di un nuovo Illuminismo.

Le conoscenze di anni e secoli passati non sono sufficienti. Non ci hanno salvato. Nella mia parte di mondo, la nostra filosofia di vita è racchiusa nell’idea «Io sono perché tu sei» ed è ora riconosciuta come filosofia dell’ubuntu, che si esprime tuttora con il saluto «io sto bene se anche tu stai bene», ma questa filosofia non ci ha salvato.

Dobbiamo inventare pensiero nuovo, trascinarlo fuori da dove emerge nelle pieghe dell’universo per effettuare uno slittamento di paradigma nel nostro modo di conoscere, valutare e attribuire significato che sia necessario per la nostra sopravvivenza, mentre vediamo gli oceani inquinati, l’ozono diminuire, i cambiamenti climatici, temperature e spiagge che si innalzano, malattie che infuriano nonostante la scienza, fame che dilaga, e corpi neri che annegano negli oceani nel loro viaggio per ricongiungersi a quelli che sono partiti prima: il sacrificio più pesante, in questa nostra epoca, in nome di ciò che chiamiamo progresso.

Non ci saranno cure miracolose per i nostri errori di pensiero. Ciò a cui possiamo mirare è cambiare i nostri modelli di pensiero parola per parola, consapevolmente e regolarmente nel tempo, e perseverare finché non si vedranno i risultati nel modo in cui facciamo le cose e nelle conseguenze delle nostre azioni. La scelta è nostra: se valorizzare l’«io» di «io penso», o guardare oltre questo «io» a un «noi» nella nostra scelta dei contenuti che ospitiamo nella mente.

Guardare oltre l’«io» a un «noi» potrebbe condurre a riformulare a mente aperta la frase di quel francese in «noi pensiamo, quindi siamo», o anche «noi siamo, quindi pensiamo», cambiando la collocazione della valorizzazione dal razionale «pensiamo» all’esperienziale «siamo».

Il testo che pubblichiamo è tratto dal numero 3 del 2022 di «Vita e Pensiero», il bimestrale culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in uscita.

Traduzione di Simona Plessi

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