Trent'anni fa toccò al Tg2 della sera mandare in onda in esclusiva il filmato della televisione irachena nel quale un giovane pilota d'aviazione italiano, abbattuto in Kuwait dalla contraerea irachena, fatto prigioniero e piuttosto malridotto, veniva interrogato in arabo con traduzione inglese e doppiaggio fuori campo. Il conduttore metteva in guardia dai «disegni propagandistici» che potevano nascondersi in una simile rappresentazione. Citava il Vietnam. My name is Maurizio Cocciolone, ascoltammo in silenzio dal cuore di tenebra. Dunque era quella la guerra che avevamo sentito nei ricordi dei nonni e immaginata nei film?

La scena dell'interrogatorio mantiene ancora oggi una sua dignità. Sordiana quantomeno nel finale, uno di quei disvelamenti che a volte si annidano nel finale dei film dell'attore romano. Il pilota risponde che «la guerra è una brutta cosa» e rivolgendosi ai leader politici su invito di un intervistatore nascosto aggiunge: «Risolvere un problema con la guerra è sempre folle».

Posizione che sarebbe stata convincente in qualsiasi talk show dell'epoca. Voleva compiacere i suoi interlocutori? L'avevano drogato? Torturato? Cocciolon pom pom/ gran pilota d'aviazion, fecero il verso di lì a qualche giorno alcuni rapper romani pacifisti autoprodotti tendenza centro sociale. Voleva anna' a fa' er coatton proseguiva la strofa (il genere era appena nato, gli zii degli attuali trapper nelle rime ancora zoppicavano). Cocciolone tornato a casa vendette l'esclusiva fotografica del suo matrimonio al settimanale Oggi.

Non ebbe medaglie, a differenza del suo collega e capomissione Gianmarco Bellini. Restò in aeronautica e scomparve in fretta dalla scena pubblica. Quando molti anni dopo venne chiamato al Grande Fratello disse di no, o almeno così ha raccontato in una rara intervista.

La diretta-melodramma

Bellini e Cocciolone. Cocciolone e Bellini. A segnare indelebilmente il mood di quei giorni e di quelle notti fu Emilio Fede, che sulla storia dei piloti italiani prigionieri costruì un melodrammone di mamme, fidanzate e aquilotti stile cinema anni Quaranta. Studio Aperto, il telegiornale che aveva inaugurato l'informazione in diretta della Fininvest, era stato il primo a dare la notizia del primo bombardamento.

È scritto su tutti i libri di storia della tv: l'orologio segnava le 0.38 del 17 gennaio 1991 e i telegiornali Rai ci misero qualche minuto in più ad accendersi. Il Tg2 – socialistissimo e guerrafondaio – arrivò fuori tempo massimo: il conduttore Michele Cocuzza aprì la trasmissione dallo studiolo delle annunciatrici interrompendo un vecchio film in bianco e nero. Istituzionale il Tg1 (e cattolico – il papa si era espresso contro la guerra, presidente del consiglio era Andreotti trattativista). Pacifista il Tg3.

Pokerista Emilio Fede. Lo scoop (chiamiamolo così) non venne da Baghdad – dove i giornalisti presenti si collegavano attraverso satelliti internazionali messi immediatamente fuori gioco dalla situazione - ma dalla inviata a New York Silvia Kramar che era a casa, ha raccontato, di fronte ai tre televisori comprati non appena fu lanciato l'ultimatum al rais Saddam Hussein. Uno era sintonizzato sulla Cnn, l'altro sull'Abc.

Le reti americane in prime time spaccato diedero la notizia. Lei la urlò al telefono: «Hanno attaccato. Hanno attaccato». È tutto su youtube. Fede ripeté «hanno attaccato» e quasi battè il palmo sul tavolo con un'espressione che a tutt'oggi riesce difficile decifrare. Lo sguardo vuoto del cronista che ha già visto tutto, per il quale è già accaduto tutto. O non accadrà più niente.

Nuove vittime

Il filosofo Jean Baudrillard, pensatore new wave, aveva già scritto sul quotidiano francese Libération un articolo intitolato La guerra del Golfo non avrà luogo. Ne scrisse un altro a distanza di un mese: La guerra del Golfo sta realmente avvenendo?. Al centro della riflessione giocata sul solito linguaggio immaginifico e paradossale c'era l'osservazione secondo la quale i protagonisti di questa guerra non sarebbero stati non più i soldati, ma gli “ostaggi”.

Tra questi ostaggi c'eravamo noi catturati dalla televisione, che come ci accorgemmo in fretta non raccontava la guerra ma in buona sostanza ne era uno dei campi di battaglia, forse quello principale. Passammo la prima notte davanti allo schermo acceso, il telecomando in mano. Il 17 gennaio, forse anche il 18. Saltati i palinsesti. Cancellati in settimana un programma con Vittorio Gassman, un ciclo di film di Sergio Zavoli, un varietà di Mara Venier e Telefono giallo di Corrado Augias. 

In sostituzione, tutti mandavano in onda almeno un pezzo di Cnn, che si conosceva per lo più di fama dato che un antenna satellitare l'avevano in pochi, quasi nessuno. In quei giorni Telemontecarlo cominciò a ritrasmetterla la notte alla fine dei programmi.

La rete all news era riuscita a restare in onda durante il bombardamento con i suoi tre inviati accucciati sotto i tavoli di un hotel di Baghdad, l'Al Rashid, collegati attraverso un particolare telefono satellitare concesso dopo lunghe trattative dal governo iracheno. I “Boys from Baghdad” erano l'anchorman afroamericano Bernard Shaw, l'ex inviato in Vietnam Peter Arnett e John Hillman, che aveva cominciato come reporter sportivo ma passò alla storia minima di quel primo giorno di guerra per aver gridato «porca vacca» dopo un esplosione particolarmente vicina.

La prima notte sentimmo soltanto le loro voci e i rumori delle bombe, in una diretta che minacciava di non finire mai, in un tempo stranamente sospeso. Laurie Anderson compose e musicò una breve poesia con le loro frasi: È come il 4 di Luglio/È come un albero di Natale/Come i fuochi d'artificio di una notte d'estate. La guerra del Golfo si è distinta fin dall'inizio per questa vicinanza tra il solenne e il triviale. Colpa della televisione? O non è da sempre questo l'effetto del trovarsi sospesi tra la vita e la morte?

Venimmo a conoscenza dell'esistenza degli Scud, i vecchi missili di fabbricazione sovietica che l'Iraq lanciava per rappresaglia su Israele. E dei Patriots, gli antimissili americani che un radar lanciava all'inseguimento degli Scud, e quasi sempre li distruggevano. Comparve in tv una nuova classe di esperti: gli analisti militari, spesso ex militari, con un aria tra il nerd e lo spionistico torbido.

Nelle conferenze stampa dove i militari americani davano le notizie ecco all'improvviso video che sembravano partoriti da un saggio di Baudrillard. Virati in verdino, più spesso bianchi e neri come un primitivo videogioco, girati da microcamere piazzate sui missili o sugli aerei che li lanciavano verso l'obiettivo. Il reporter dell'Ansa che assistette alla prima di queste conferenze scrisse: «Sembra quella scena del dottor Stranamore». I video servivano a dimostrare che la guerra, detto con un'altra espressione nata in quei giorni, era «chirurgica», praticamente non faceva male a una mosca. Per questo il titolo de Il manifesto, il giorno dopo il bombardamento, fu: «Massacro»

È rimasto nella memoria di quella prima notte (tutta conservata su youtube) un'altro degli inviati della rete Cnn che trasmetteva in video dal cortile di un albergo in Arabia Saudita. Mentre parlava scrutava il buio per capire se era il caso di darsela a gambe, e aveva una maschera antigas in mano. Fondato o no che fosse, si diffondeva il timore di una guerra chimica.

Ci furono accaparramenti nei supermercati, code ai benzinai. Iraqi tv, che continuava miracolosamente a andare in onda, mostrava ogni volta che poteva (o voleva) le macerie dei palazzi distrutti dai bombardamenti. Passarono le immagini di un bunker sotterraneo scambiato per un deposito di armi, 400 morti, donne e bambini. Gli scudi umani.

La televisione era molto più che un elettrodomestico. Era la luce accesa in tutte le case quando scende la sera. Faceva effetto. Non c'era la Rete, niente social. Non c'erano neppure le serie tv. Anzi no, non esattamente. Una settimana prima dell'attacco a Baghdad su Canale 5 era andata in onda la prima puntata di Twin Peaks di David Lynch.

Undici milioni di spettatori per la madre di tutte le serie tv, e di tutte le inquietudini. Baghdad era sul confine esatto di una mutazione che sarebbe stata antropologica: il senso del tempo, le forme della narrazione, i nervi scoperti, le emozioni. Tra l'ottobre 1990 e l'agosto 1991 l'informatico inglese Tim Berner Lee inventa i protocolli del world wide web e mette in rete il primo sito della storia, dal Cern di Ginevra. Noi a guardare nel buio, come l'inviato della Cnn.

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