«Noi uomini abbiamo dimenticato come si guarda il cielo, come si guarda il mare, e tutto ciò che ci circonda»: in fondo, è una frase che potrebbe dire chiunque e fare bella figura. Ma se a dirla è un ragazzo di 33 anni che si è creato una vita da navigatore oceanico solitario ha un significato che va oltre il significante.

Ambrogio Beccaria è nato nel deserto di cemento di Milano. Fra una traversata e l’altra – dopo le vittorie nelle classi Mini 6.50 e Class40 – ora nella classe Imoca60 con Allagrande Mapei Racing, è pronto ad affrontare l’Ocean Race Europe in agosto, per prepararsi alla Vendée Globe, il giro del mondo in solitaria nel 2028. Vive a Lorient, in Bretagna, ed è una delle non troppe persone che della natura e degli elementi ha fatto esperienza assoluta.

«E lì – ci dice – ti rendi conto che effettivamente ti stai avvicinando un po' a un mondo che non è più solo quello degli umani, ma è quello degli animali che ci vivono lì dentro, nel mare».

Un mondo su tutti: quello del buio. Il buio, in mare, è buio vero. Sa di paura atavica. Com’è il buio, nell’oceano, da soli?

In realtà il buio in mare è una delle cose che fa più paura, ma noi marinai, per consolarci, ci diciamo che le tempeste più brutte è meglio affrontarle di notte, perché non vedi quello che hai davanti. Invece è l'alba il momento che spaventa: quando ti rendi conto della grandezza delle onde, e a volte gli occhi aumentano la percezione del rischio. Se sei al buio vicino a un precipizio, non lo sai. Poi a dire il vero ti abitui alla luce della notte e vedi tante cose che a terra non vedresti. E non parlo solo di visione vera e propria.
Di cosa, allora?

Di sensazioni, di equilibrio, di sentire l’invisibile: il vento che sta per cambiare, percepire la temperatura e l'umidità dell'aria in un modo diverso. Sei allenato a vivere in quel posto lì, lo capisci.

E in una traversata oceanica, si dorme anche come fanno gli animali.

Il sonno è una delle cose più complicate da gestire. Bisognerebbe dormire cinque ore nelle grandi traversate per essere lucidi, per non perdersi nelle strategie e perché la barca ha sempre bisogno di te. Il vento cambia, non è un ventilatore: sale, scende, gira in qualche grado, e visto che si va col vento, la scotta, la corda che orienta la vela, va regolata al millimetro.

Come fa?

Sonno polifasico, spezzettato. Come gli animali. Nelle regate più corte puoi andare anche in debito, con sonnellini anche da 5-10 minuti, in quelle più lunghe invece cerco di fare 20-30 minuti, magari di notte, quando fa freddissimo e senti che costa tanta energia stare sveglio, tanto è buio ed è più difficile regolare la barca. In quel momento magari fai una raffica di pisolini, però ti devi svegliare in mezzo per controllare che tutto vada bene. La tecnologia a bordo monitora la performance della barca e aiuta: ti svegli, controlli i dati, che sia tutto a posto, che non ci sia traffico.

Traffico?

Cargo e fauna marina. La prima volta che ho attraversato l’Atlantico mi aspettavo una grande distesa d’acqua, invece è colmo di roba. L’estate scorsa ho fatto una regata che usciva dal fiume San Lorenzo, nei Banchi di Terranova, in Canada: pieno di balene, uccelli marini...

Sì, ma i cargo?

Nell’Atlantico ci sono delle zone di separazione del traffico, le DST, e in quelle zone lì il mio primo allenatore, un italiano che abitava in Bretagna, quando dovevo fare la mia prima traversata sul 6.50, mi diceva di fare come in strada: prima guarda a destra, poi a sinistra.

Abbastanza controintuitivo, se si pensa alla navigazione solitaria.

È vietato attraversare quelle zone, ma a vela può capitare, perché sei lì, e devi uscire perpendicolarmente, più velocemente possibile.

Nel mare c’è anche altro. Nel Mediterraneo, tempesta o meno, ogni tanto c’è qualcuno che ha bisogno di essere salvato. Lei è stato anche a bordo di una nave di soccorso.

Lo scorso agosto ero sulla Life Support di Emergency quando abbiamo trovato dei migranti in pericolo. Abbiamo salvato più di 40 persone. Erano molto giovani, l’età media direi intorno ai 25 anni, la maggior parte siriani. Non dimenticherò mai uno di loro, il più giovane. 14 anni, da solo. Mi ha chiesto il nome e non ho potuto rispondere. Ha detto che voleva sapere il nome dell'uomo che gli aveva salvato l'anima. Non dimenticherò mai questo momento. Essere un marinaio non significa solo regatare, sfruttare le tecnologie al limite e affrontare grandi tempeste. Ma significa anche capire che le tempeste possono capitare a chiunque in qualsiasi momento.

Tempeste, crisi. Lei una crisi la visse a scuola, una bocciatura.

Sì, e avendo passato sei anni al liceo, devo ringraziare i professori di matematica e fisica, persone capaci e che mi hanno fatto nascere una passione. Poi io l’ho declinata in un modo diverso. Che volessi fare questa vita l'ho capito attraverso un periodo di crisi: cosa faccio adesso, dove finisco io in questo mondo che fa paura? Servono quei momenti lì in cui ti senti perso, ti danno il coraggio appunto di porti domande che altrimenti non ti porresti. Quando va tutto bene è più difficile cambiare le cose, ci stai dentro e vai dritto.

Mica facile.

I momenti di dubbio sono preziosi. Capisco che appaia un controsenso: uno vorrebbe evitarli, ovviamente io non li cerco, vorrei star bene tutto il tempo, ma certi momenti esistono e forse può consolare sapere che danno sempre lezioni importanti. Servono anche nella competizione. Quando uno vince, il rischio è che poi smetta di ricercare ciò che c’è dietro le vittorie, che è poi l’entusiasmo del competere: voler migliorare, voler capire cosa farebbero gli altri.

Una questione di equilibrio. Come a bordo. A lei chi lo ha insegnato?

Ho iniziato in equipaggio. Guardavo gli altri e cercavo di capire chi mi sembrava più bravo e chi mi ispirava di più. Mi piacevano quelli che riuscivano sempre a rimanere calmi. I marinai scarsi urlavano ed erano agitati; quelli bravi, invece, si facevano capire. Quando ci si agita si perde in efficacia.

FOTO MARTINA ORSINI

Giorni interi in mezzo al mare. Circa cinque ore si dormono, mezz’ora si mangia. Poi?

«Passiamo tanto tempo ad analizzare il meteo che ci sarà: quanto vento, pensare alla vela, alle strategie di gara. Quando c’è poco vento uno può permettersi magari di arrivarci con le riserve di energia abbastanza basse, perché tanto la barca avrà bisogno poco da te. Ma la barca va ascoltata: ti parla in continuazione, ogni onda fa un rumore differente, quando fa un verso diverso significa che c’è qualcosa di strano. Per questo, ad esempio, ci penso tantissimo tempo prima di concedermi di ascoltare musica a bordo».

Domanda da genitore. Con tutto quello che si può fare, perché andare proprio da soli nell’oceano?

«Credo che per un genitore, invece, vedere nel proprio figlio l'assenza di stimoli, l’incapacità di passare la giornata, non sapere cosa vuol fare della propria vita, sia peggiore come angoscia. O no?».

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