Con l’arte concettuale e il minimalismo Alberto Garutti (Galbiate, 1948) condivide l’interesse per le procedure e i sistemi di descrizione dei fenomeni (mappe, diagrammi, forme geometriche). A questo approccio analitico, tuttavia, l’artista fonde la “materia umana”, fatta di dubbi, fragilità, storie personali e collettive. Credo di ricordare, opera realizzata per la sua prima mostra nel 1975 composta da 32 fotografie in bianco e nero, ritrae l’artista nella stanza dove allora dormiva.

Intorno a sé, rappresentati in modo sistematico, gli oggetti che di solito si trovano in una camera da letto: un materasso, le scarpe, un bicchiere, un cuscino, i dischi. In un periodo storico estremamente politicizzato mettere in gioco una “narrazione individuale” equivaleva ad andare controcorrente rispetto alle esperienze più radicali del concettualismo, che allora dominavano la scena dell’arte. È in quel contesto segnato da ideologie e dogmatismi che Garutti decide di prendere una posizione volta a recuperare la dimensione di attenzione e sensibilità verso l’altro, e naturalmente anche verso le cose.

Associazioni mentali

Alberto Garutti in piazza del Popolo a Roma (LaPresse)

Garutti, come i concettuali e i minimalisti, usa il linguaggio artistico per innescare sottili giochi di associazioni mentali, ma ci schiude narrazioni personali associate alla dimensione dell’emotività. È il caso delle matasse, una serie di lavori realizzati con filo di nylon colorato arrotolato attorno a una bobina di cartone. La lunghezza del materiale utilizzato varia e corrisponde alla distanza tra due luoghi. In alcuni casi, per esempio, raccontano lo spazio che separa lo studio o la casa dell’artista da quella del collezionista che acquista l’opera.

«Sono cresciuto a Milano in una famiglia con quattro figli e, quando qualcuno di noi prendeva il morbillo, la mamma ci mandava in isolamento dalla nonna a Olginate, sul lago di Lecco. E lì venivo preso dal magone. Una tremenda nostalgia di casa. E quel sentimento misurava la distanza tra me e i miei genitori». Così le matasse rappresentano l’oggettività di una distanza fisica che corrisponde, in fondo, a una vicinanza affettiva.

Un atto di fede

Quando si lavora a livello concettuale, l’opera è riuscita tanto più la semplicità dell’idea è in grado di toccare temi complessi e profondi. Dal 2004 Garutti inizia collocare nella pavimentazione di luoghi pubblici di diverse città europee (Siena, Milano, Firenze, Londra, Lugano, Anversa, Kaunas) una lastra di pietra sulla quale ha fatto incidere l’iscrizione: «Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora». La scritta è un invito a riflettere sull’unicità del proprio percorso umano.

L’opera assumerà inoltre una nuova profondità di significato ogni volta che verrà guardata. Si tratta di una narrazione silenziosa che seguirà lo spettatore ovunque va. Basterà anche solo evocarla con la memoria e di nuovo si sarà portati a innescare un meccanismo di ricapitolazione della propria vita che porta a dire: «Tutto quello che ho vissuto è stato, in qualche modo, necessario».

Ciò che più conta nell’arte, dice l’artista, è la misteriosità dell’evento visivo. Lo ha dimostrato bene con un’opera sempre del 2004, realizzata nella Certosa di Padula, in provincia di Salerno, dove, su una parete di una delle celle del complesso monastico, ha apposto la scritta: «Nei muri di questa stanza è stata nascosta una lastra d’oro larga venti centimetri, alta venti centimetri e con uno spessore di tre millimetri».

Qui Garutti chiede allo spettatore un atto di fede (l’effettiva realizzazione dell’intervento è attestata da un atto notarile) chiedendogli di credere all’esistenza di qualcosa che c’è ma non si vede. Nell’istante stesso in cui il visitatore legge la scritta, lo spazio vuoto della cella si riempie di una presenza preziosa ma invisibile. Così come, nei secoli passati, la stessa cella monastica era occupata dalla presenza misteriosa riconosciuta dalla fede del religioso. È il tema dello spirito, del mistero dell’esistenza. Tema che per Garutti è fondamentale. Perché, come spesso ripete: «Se all’arte togliamo la spiritualità, che cosa ne rimarrebbe?».

Il metodo è opera

Dall’inizio degli anni Novanta, Garutti inizia a riflettere in modo sistematico sull’arte nello spazio pubblico, contribuendo alla ridefinizione del concetto di monumento. Non più la statua equestre del padre della patria, dell’eroe o del martire in mezzo alla piazza della città, come elemento estraneo al tessuto di relazioni umane e sociali della città. Questi interventi seguono un metodo di realizzazione che è, allo stesso tempo, critico, etico e poetico e che, nel suo insieme, costituisce l’opera stessa. «Il metodo è opera», afferma l’artista.

Che cosa questo significhi lo si capisce nel suo recente Tre soglie per Ca’ Corniani realizzato nel 2019 a Caorle (Venezia), con la curatela paesaggistica di Andreas Kipar e la curatela artistica di Elena Tettamanti e Antonella Soldaini, commissionato da Genagricola, holding agroalimentare di Generali che in quel luogo possiede la tenuta più grande d’Italia (17mila ettari).

Si tratta di tre opere poste ai punti d’accesso all’area, nate da un lavoro preparatorio di coinvolgimento con la vita del luogo, fatto di incontri e dialoghi con coloro a cui l’intervento è destinato. Sono loro, spiega, i “committenti inconsapevoli”. Di loro le opere parlano e saranno loro a usufruirne. È così che Garutti ha individuato i tre luoghi e i tre temi.

Una storia di relazioni

Il primo tema sono gli animali dell’unico podere che l’azienda, a oggi, continua ad affittare a un privato contadino. Sono tre cavalli e due cani a cui l’artista ha realizzato i ritratti a grandezza naturale, in resina acrilica e polvere bianca di marmo, allineati lungo un canale.

«Non sono animali qualunque, sono quelli di Renzo, il fattore che ho conosciuto di persona. L’opera parla del suo lavoro, la sua presenza nel territorio, la sua fatica e i suoi affetti. È l’invito a una riflessione sul rapporto tra l’opera di quell’uomo e quel paesaggio particolare». Dice la scritta posta sui piedistalli di ciascuna statua: «I cavalli e i cani qui ritratti vivono nel podere e sono i custodi di questo paesaggio. L’opera è dedicata a loro e alle persone che passando di qui vedranno questi campi coltivati come un grande giardino».

Garutti ha poi individuato un altro luogo sensibile del territorio: il casale abbandonato di Ca’ Cottoni, che ha fatto mettere in sicurezza e bonificato dalla copertura di Eternit. L’opera è formata da settemila piramidi a base quadrata di lamiera metallica dorata, che riflettono la luce in modo diverso in relazione alla sua intensità e ai diversi punti d’osservazione. Recita la didascalia: “Il grande tetto dorato rende prezioso questo antico casale. L’opera è dedicata alla sua storia e a coloro che passando di qui immagineranno le sue stanze vuote riempirsi nuovamente di vita”.

Ridare dignità

In passato, l’edificio era la dimora di numerose famiglie della zona. Al suo interno c’era anche la canonica, dove abitava il parroco. «Era lì che si svolgeva la vita del paese. Mi hanno raccontato che, d’inverno, i fedeli si trovavano in quei locali a celebrare la messa, perché nella chiesa vicina c’era troppo freddo e umidità». All’inaugurazione del progetto, avvenuta nell’estate 2019, gli abitanti della zona che hanno partecipato, ricorda Garutti, parlavano dei propri parenti che vi avevano abitato. Il nuovo tetto d’oro ridà dignità e far rivivere una storia di relazioni che il tempo stava facendo dimenticare.

L’ultima opera-soglia è quella posta tra terra e cielo. Si tratta di una grande scritta di luce (la grafia è quella dell’artista) che riporta queste parole: «Queste luci vibreranno quando in Italia un fulmine cadrà durante i temporali. Quest’opera è dedicata a chi passando di qui penserà al cielo». L’installazione possiede un dispositivo di regolazione dell’intensità luminosa collegato con Meteorage, il sistema che monitora la caduta dei fulmini.

È un lavoro che invita ad entrare in rapporto con quella parte del paesaggio che è il cielo: luogo dell’immaginario, dove siede Zeus, o dove abita il padre eterno. A tema, conclude Garutti, c’è «l’enigmaticità dei fenomeni naturali e il loro mistero seducente. È il senso mistico della natura, che l’arte ha sempre cercato di rappresentare».

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