La serie che Valeria Golino ha tratto per Sky dal romanzo L’arte della gioia di Goliarda Sapienza è uno dei prodotti più moderni in circolazione. Dopo trent’anni la sfida più difficile è stata la stessa: restituire la natura della protagonista senza addomesticarla o farne un simbolo. Modesta è imprendibile. La presenza di Tecla Insolia è ipnotica. Una serie che ci dice qualcosa sulla sessualità che abbiamo dimenticato: un corpo desidera. Venerdì 14 gli ultimi due episodi
Modesta è ancora pericolosa? Si direbbe di sì, se riteniamo pericoloso tutto ciò che decostruisce, che sposta, che cambia le regole. E Modesta, nata simbolicamente il primo giorno del 1900 e protagonista de L’arte della gioia, ha fatto questo, prima tra le pagine del romanzo di Goliarda Sapienza, e ora nella serie diretta da Valeria Golino (le ultime due puntate saranno disponibili su Sky il 14 marzo). Un libro che nessuno voleva pubblicare, perché nessuno riusciva a capirlo: troppo libero, troppo difficile da definire, troppo esuberante stilisticamente. Ma Cesare Garboli lo aveva detto: «Il tempo lavorerà a favore dei libri di Goliarda Sapienza. E questo non è un augurio: è una convinzione».
La serie che ne ha tratto Valeria Golino – che riproduce solo la prima delle cinque parti del libro – è uno dei prodotti cinematografici più moderni che possiamo trovare in circolazione. Eppure, dopo trent’anni, la sfida più difficile da affrontare è ancora la stessa: provare a restituire la natura di Modesta senza addomesticarla, senza farne un simbolo.
È difficile non cadere nel paradosso: una donna così spregiudicata, così incurante del giudizio altrui, così anarchica, non può che diventare un’icona. Modesta invece è imprendibile. Segue il piacere, i guizzi del pensiero, gli impulsi della carne, e allo stesso tempo un’istintiva strategia. «È vero, ho rubato. Ho sempre rubato la mia parte di gioia a tutto e a tutti». Inizia così la serie di Golino, con la voce di Tecla Insolia, interprete magistrale di Modesta (difficile immaginare questa serie senza di lei). E prosegue: «Quante volte mi sono innamorata. Tutte le volte che è stato necessario».
Valeria Golino e la sfida dell’indicibile
Trasformare in immagini un libro che è quasi un flusso di coscienza non è certo semplice. Se poi quel libro è L’arte della gioia, l’impresa potrebbe sembrare quasi impossibile. Il romanzo vuol essere un racconto del 1900, ripartire dall’inizio, scavare dentro le questioni più complesse e intime, mettere a nudo il desiderio che si annida ovunque, svelare la forza soppressa (in quegli anni, e purtroppo troppo spesso anche oggi) di chi nasce donna.
Con le parole Sapienza dilata, riscrive, spiega, e cerca di dominare la Storia. Modesta, a sua volta, incarna la storia di tutte le donne che si permette di essere: figlia, amante, madre, stratega, manipolatrice e protettrice.
Tecla Insolia è una Modesta forse più morbida di quella letteraria, meno feroce, meno calcolatrice e più istintiva. Sente, vibra a quello che le accade. È come una corda tesa. Quando alza le braccia e si lascia andare ad armoniose giravolte è un’esplosione di grazia. A tratti sembra quasi una bambina. La sua presenza è ipnotica: la camera la segue in una Sicilia che sembra sospesa tra realismo e sogno, tra dettagli crudi e squarci lirici.
Golino lavora con la sua sessualità: il corpo di Modesta è sempre consapevole, sempre politico, sempre irrefrenabile. La serie riesce bene a restituire l’irrequietezza del flusso di parole di Sapienza, che è l’irrequietezza di un’epoca. Modesta non si ferma mai, come se il tempo non bastasse e non riuscisse mai a contenerla.
Come la Storia che procede sempre in avanti, incurante. Il suo rompere continuamente gli argini la rende a tutti gli effetti un’eroina tragica, ma in questo caso, forse proprio perché il Novecento è pronto a saltare il millennio, è l’eroina a vincere.
Modesta, Antigone, Clitemnestra e le altre
Antigone antepone la legge del cuore alla legge dello Stato e per questo muore. Clitemnestra, che ha osato vendicare la figlia e assumere il potere, viene assassinata dal figlio Oreste. La storia della letteratura è piena di donne il cui desiderio si trasforma in rovina. Emma Bovary, che voleva fuggire dalla mediocrità borghese, ingoia una dose di arsenico. Anna Karenina, che ha rivendicato il desiderio, si getta sotto un treno. Madame de Merteuil, la stratega delle Relazioni pericolose, viene sfigurata dal vaiolo e ridotta al silenzio.
Modesta no. «Io non farò la governante. Non mi voglio sposare, non sarò mai la serva di nessuno» afferma con forza nella serie. Modesta non è una vittima, non è una martire. Lei non muore, non cede, non soccombe. Non trova stratagemmi per fuggire da una vita che le sta stretta, lei in vite che non le appartengono cerca proprio di non entrarci.
Se la Cassandra di Christa Wolf chiedeva a gran voce di essere ascoltata, Modesta non chiede nulla. Si prende quello che vuole. «Noi il destino non lo possiamo scegliere. Lo decidono gli altri per noi», le dice Rocco, autista della Principessa Gaia Brandiforti (perfetta nella parte Valeria Bruni Tedeschi). E nel giro di una puntata lei gli dimostra il contrario. Con Modesta la forza del destino diventa contemporanea. Ha il talento di Mr. Ripley, la forza manipolativa e seducente di Oliver Quick in Saltburn.
Il desiderio come resistenza
E qui entra in gioco l’elemento centrale: praticare l’arte della gioia è praticare il desiderio come atto rivoluzionario. La serie di Golino restituisce perfettamente questa urgenza. In un’intervista rilasciata a «La Lettura» insieme a Ippolita Di Majo (autrice che negli ultimi anni ha contribuito a dare nuova vita a Goliarda Sapienza, a partire dalla traduzione per il teatro di Il filo di mezzogiorno, con la regia di Mario Martone), Valeria Golino ha affermato di aver dovuto fare «grandi passi avanti nel pensare l’erotismo femminile intimamente per poterlo rappresentare». E ci è riuscita.
Anche la comunicazione social (basta dare un occhio al profilo Instagram di Tecla Insolia) è impregnata di questo erotismo. Libero. Prepotente. Questa serie, che con le dovute concessioni resta comunque molto fedele all’opera, ci dice qualcosa della sessualità che abbiamo dimenticato, o abbiamo imparato a categorizzare in modo troppo definito.
Ossia che un corpo è un corpo. Che il corpo desidera. Che la sessualità non è altro che questo desiderio del corpo di affermare se stesso. Lo grida Modesta a Madre Leonora: «Io ero felice perché tu eri bella. Bella e con la voce di un angelo». Questa serie ci ricorda che nella sessualità quello che definisce in modo così netto i rapporti tra maschio e femmina è poco più che un costrutto sociale.
Ma la gioia e il desiderio viaggiano lontani da una visione chiara, canonica e ordinata, dalle definizioni di ruoli che non portano alla felicità ma solo all’ordine. A Modesta non interessa l’ordine, è una donna che esiste alle sue condizioni.
Ama Suor Leonora che le ha fatto da madre, e poi la giovane Beatrice, ma può amare anche Rocco e Carmine, e perfino in qualche modo Ippolito, il figlio deforme della Principessa. «Si può amare un uomo, una donna, un albero, e forse anche un rospo, che non si sa mai». Lo dice così, in modo quasi scanzonato, come lo direbbe una bambina.
Ricorda Di Majo che quando, negli anni Ottanta, un dirigente Rai si vide proporre una sceneggiatura del romanzo, rispose: «Siete pazzi! Questa donna fa sesso con uomini e donne, commette un reato dopo l'altro e in tutta la vita non paga mai una volta. Volete far saltare in aria la Rai?».
Oggi siamo meno propensi a scandalizzarci. Cose ben più cupe, ben più angoscianti e gravi ci preoccupano di una giovane che pratica l’arte della gioia. O almeno così dovrebbe essere. Eppure Modesta, nel 2025 come nel 1900, appare ancora come una forza inarrestabile, una promessa rivoluzionaria.
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