All’ultimo International Economic Forum di Davos si è parlato anche di arte. A fare gli onori di casa è stato Hans Ulrich Obrist direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra che ha presentato l’artista sino canadese Sougwen Chung. Il talk, dal titolo Cosa succede quando robots e uomini creano arte insieme, faceva parte della sezione dedicata alle “industrie nell’età intelligente”. Definire l’età in cui viviamo intelligente dimostra un notevole ottimismo e ottimista è l’approccio di Obrist alla contaminazione arte-intelligenza artificiale.

Alle Serpentine Galleries, egli ha infatti creato un intero dipartimento curatoriale che si occupa solo di questo e che negli ultimi anni ha organizzato una serie di importanti mostre che ci interrogano sul rapporto tra umano e non umano presentando artisti che integrano sistemi di intelligenza artificiale nelle loro opere come, ad esempio, Pierre Huyghes, quest’ultimo presente con il suo grandioso Liminal alle Collezioni Pinault, a Punta della Dogana durante la recente biennale di Venezia.

Herndon e Dryhurst

L’ultima edizione della serie è la mostra chiusa il 2 febbraio a Londra del duo di artisti-musicisti Holly Herndon e Mat Dryhurst, che utilizzano sistemi computazionali e generativi come strumenti di collaborazione collettiva. Prendendo esempio dalla musica corale, l’opera di Herndon e Dryhurst intitolata The Call, esplorava riti di aggregazione partecipativa educando la macchina ad organizzare modi e luoghi di co-creazione e spronando la collettività a parteciparvi, in un continuo e armonico feedback loop.

Il feedback loop avviene quando il risultato di un processo viene utilizzato come base per un nuovo processo. In un cervello umano questa sequenza si chiama apprendimento. Anche le opere di Sougwen Chung, ospite di Obrist a Davos, sono il risultato di un apprendimento. Sougwen Chung disegna e dipinge in collaborazione con robot da lei programmati per rispondere alle sue onde celebrali e che accompagnano l’artista ripetendo i suoi gesti con movimenti indipendenti a cui a sua volta l’artista risponde.

Il focus principale di Sougwen è dunque il rapporto tra gesto umano e gesto non umano e per sviluppare questa ricerca ha fondato la società Scilicet con cui finanzia le sue ricerche artistiche e tecnologiche. Le macchine usate da Sougwen sono state nutrite con tutto il suo archivio artistico, in altre parole conoscono e rispondono solo al vocabolario visivo dell’artista.

Il Turing di Anadol

Altra cosa è la generazione di arte prefabbricata come nel caso di Ai-DA. Ai-DA è un umanoide che disegna rielaborando quello che vede, attraverso le video camere che ha al posto degli occhi, in particolare combinandolo con un archivio di opere d’arte su cui è stata allenato. Una sorta di scimmia addestrata (mi perdoneranno le scimmie) che produce opere originali nel senso di autorialità ma certamente non nel senso creativo. Ciononostante, il suo “Ritratto di Alan Turing” è stato venduto da Sotheby’s New York lo scorso novembre per oltre un milione di dollari. Si, perché l’intelligenza artificiale “tira” e tutto quello che tocca diventa oro. Unsupervised, l’opera che l’artista turco Refik Anadol ha realizzato nel 2023 per il MoMA di New York, ha avuto un successo enorme. Si tratta di una proiezione gigantesca di forme in continua evoluzione assemblate dal sistema computazionale creato da Anadol che elabora i dati della collezione del MoMA.

Usando sistemi di GAN (Generative Adversarial Networks, un tipo di rete neurale che genera contenuti nuovi invece che analizzare e processare contenuti già esistenti) la macchina presenta le opere che potrebbero essere state create ma non sono state create dagli artisti presenti nella collezione del museo. Insomma una storia dell’arte con i se e con i ma, che il pubblico ha trovato affascinante a giudicare dal tempo che mediamente gli spettatori hanno passato ad osservarla: anche fino ad un’ora quando invece generalmente non si spendono più di 30 secondi davanti ad un quadro.

La stroncatura

Nonostante il grande successo di pubblico c’è chi non ha gradito il progetto di Anadol. Il critico del New York Magazine  Jerry Saltz ha descritto l’opera commissionata dal MoMA nient’altro che una glorified lava lamp (l’esaltazione di una lampada lava). È possibile e probabile, che una volta finita la montatura pubblicitaria intorno all’intelligenza artificiale (e dunque la nostra età sarà veramente diventata intelligente) molte delle opere create con l’utilizzo di AI finiranno nel dimenticatoio.

Non è questione di essere contrari alla tecnologia. Gli artisti di tutte le età hanno sempre utilizzato e fatto ricorso a forme sempre nuove di tecnologia. Pensiamo alle lunghe descrizioni dei processi di fusione del monaco Teofilo che nel XII secolo scrisse un manuale di tecniche artistiche, oppure all’uso di Vermeer della camera oscura. Non si tratta nemmeno dell’autorialità del gesto. Tutta l’arte del ventesimo secolo, da Duchamp a Pollock in poi, ci ha guarito dall’antica nozione di “mano”. Anche il tema del disorientamento tra identità umana e digitale è entrato nel repertorio artistico a partire dagli anni settanta del ventesimo secolo con artisti come Lynn Hershman Leeson. Ma ci viene da dire che non basta usare la tecnologia per essere un grande artista.

Le prospettive

A Davos, di arte si è parlato nella sezione dedicata all’industria tecnologica e Obrist ha introdotto il talk auspicando che le industrie tecnologiche impieghino come prassi comune sempre anche gli artisti. L’idea è seducente perché ci lascia immaginare un futuro in cui la tecnologia possa essere anche strumento di pensiero critico come alcuni artisti ci insegnano. Ma può essere anche il contrario.

A Davos quest’anno si è dato valore all’intraprendenza della giovane artista Sougwen Chung e alle sue capacità ingegneristiche e manageriali che sono sicuramente notevoli e ammirevoli. Ma le opere che propone non convincono. Sono noiose, non ci raccontano niente e una volta sfumata l’eccitazione di vedere un braccio meccanico che si muove seguendo delle “onde celebrarli” non diranno più niente e nessuno. È la camera oscura ma senza Vermeer.

In questi giorni in cui non si parla altro che di intelligenza artificiale è bene ragionare come meglio usarla. Nelle sue ricerche artistiche Refik Anadol usa cinque petabytes di dati. Per gestire archivi di dati di questa magnitudine serve una quantità enorme di energia. Usare queste risorse per creare un’opera che illustra l’effetto del cambiamento climatico sui ghiacci dell’artico (come Refik ha fatto proprio a Davos) fa un po' ridere (o piangere). Che l’arte si appropri dell’intelligenza artificiale per migliorarla ci piace assai; che lo faccia solo per vendere fumo un po' meno.

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