La notizia di una mostra di David Hockney, uno dei più celebrati artisti contemporanei, al parigino Musée de l’Orangerie il prossimo autunno è una di quelle che accendono di trepidazione gli appassionati d’arte. Ma è una notizia che si può trovare in Internet. Non altrettanto agevolmente, invece, si potrà capire quali circostanze esistenziali abbiano condotto l’ottantatreenne pittore britannico a esporre accanto alle Ninfee di Monet, a meno di non avere il privilegio di parlarne con Jean Frémon.

Presidente, direttore generale e amministritatore delegato della Galerie Lelong, con sedi a Parigi e New York, oltre ad aver seguito per decenni, lavorando con loro a stretto contatto, artisti quali Francis Bacon, Antoni Tàpies, Louise Bourgeois, Jannis Kounellis, Robert Ryman, Sean Scully, Jaume Plensa, e il già citato Hockney, Frémon è autore di oltre 30 libri tra romanzi, saggi, cronache e brevi racconti che negli ultimi anni hanno spesso come tema centrale l’arte visiva.

Per tornare a David Hockney, è stato proprio in occasione di una visita a Frémon, suo gallerista e amico da una vita, che il pittore ha “scoperto” la Normandia e, stanco del monotono clima senza stagioni della California, dove ha abitato quasi tutta la vita, due anni fa ha deciso di trasferirsi lì, a pochi minuti di auto da dove lo stesso Frémon ha una casa.

«Un giorno l’ho portato a vedere l’arazzo di Bayeux», racconta, «un arazzo realizzato nell’XI secolo che narra della conquista normanna dell’Inghilterra e nel quale si avverte lo scorrere del tempo. Hockney ne ha tratto ispirazione per realizzare un iPad drawing stampato su carta e lungo circa 70 metri nel quale il paesaggio naturale si trasforma gradualmente, attraverso lo scorrere delle stagioni». Opera che, appunto, il prossimo ottobre sarà esposta all’Orangerie.

Storia di un gallerista

La ricchezza delle relazioni intessute da Frémon con gli artisti nel corso della sua lunga carriera di gallerista – nato nel 1946, ha fondato la Galerie Lelong nel 1981 insieme a Daniel Lelong e Jacques Dupin – dà spessore anche alle pagine dei suoi libri, purtroppo non ancora tradotti in italiano. Una delle sue ultime pubblicazioni, Le Miroir magique (P.O.L. éditeur, 2020), è una raccolta di storie, non necessariamente vere, sui ritratti e sui loro autori.

Nel libro Frémon racconta di quando la regina Elisabetta posò per Lucian Freud o di come Francis Bacon cercò di ritrarre il carattere da rinoceronte del critico David Sylvester, oppure ancora dell’ossessione di Louise Bourgeois per gli specchi. «Non è il libro di uno storico dell’arte, cosa che non sono», spiega Frémon, «bensì finzione. Alcune storie sono inventate, altre si ispirano a fatti realmente accaduti, ma mantengono pur sempre il tono della favola».

Le Miroir magique si legge come un romanzo e, senza evocare complicate teorie sulla ritrattistica come genere pittorico connesso alla necessità di un’interpretazione psicologica, porta a riflettere sul rapporto tra verità e finzione, tra realtà e rappresentazione, vale a dire su ciò che sta al cuore di ogni indagine sull’esperienza artistica. La posizione di Frémon è semplice e illuminante: «I ritratti dicono chi siamo e in quale tempo viviamo. Per questo non saranno mai fuori moda. E comunque, che raffiguri un volto oppure no, ogni dipinto è sempre un autoritratto del suo autore».

Lo stesso si può probabilmente dire di un libro, e sorge dunque la curiosità di capire quale posizione occupi la scrittura nella vita di Frémon, in relazione all’altra sua attività, quella nel mondo dell’arte. «Non sono un gallerista che scrive per hobby», spiega. «Sono uno scrittore che ha scelto la professione del gallerista. È di sicuro un’occupazione con molti privilegi, come la qualità delle persone con cui ho a che fare, artisti e clienti. Certo, anche la scrittura può essere un lavoro, ma non è il mio caso, ed è sempre stato chiaro: ho sempre voluto poter scrivere liberamente, senza l’esigenza di guadagnarci».

Artisti e personaggi

Per altro verso, le due anime di Frémon si sono sempre intrecciate, tanto che molti testi hanno per protagonisti artisti che l’autore ha frequentato a lungo, come Louise Bourgeois: Calme toi, Lison (P.O.L. éditeur, 2016) è un autoritratto immaginario dell’artista, scritto in forma di monologo, come se fosse la donna stessa a far rivivere momenti della sua esistenza.

Nella realtà, Frémon ha conosciuto Bourgeois nel 1978 a New York, «lei era contenta di poter parlare un po’ in francese», ed è stato testimone della sua trasformazione da artista settantenne quasi completamente sconosciuta a star internazionale. «Louise aveva un carattere davvero complesso, imprevedibile, ed è riuscita a trasformare in arte la sua intera esistenza».

Tra gli ultimi lavori della sua vita ci sono alcuni delicati acquerelli ispirati a un racconto di Frémon, (Fata Morgana, 2010), la storia di un immaginario pittore del Rinascimento che, contrariamente alla tradizione, si accinge a ritrarre il bambino Gesù nudo, senza fasce. Attraverso i racconti di Frémon, tanto quelli romanzati quanto quelli che riguardano momenti autenticamente vissuti, gli artisti prendono corpo e umanità.

Ecco dunque Hockney alla guida della sua auto tra le montagne fuori Los Angeles: fa partire un cd di Wagner, poi accelera o rallenta secondo l’andamento della musica per accordarla al paesaggio naturale. Ed ecco Bacon a tavola, dopo un’inaugurazione, che ordina l’ennesima bottiglia di vino. C’è chi gli fa notare che forse hanno tutti già bevuto abbastanza, e lui risponde: «Solo troppo è abbastanza». Sembra di poterli vedere oltre le loro opere, e la loro vitalità conferisce nuovo senso all’arte.

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