Immaginate il sottoscritto, un intellettuale mite, che non ha mai alzato le mani su un proprio simile, mentre è bloccato a casa per un paio di mesi da una convalescenza abbastanza penosa, in cui i giorni passano senza apparenti segnali di miglioramento. Incapace di concentrarsi e lavorare. Che cosa gli resta, se non il computer e il telecomando, all’ossessiva ricerca di partite e altri eventi sportivi? E infatti, così ho passato questa sorta di punizione divina causata dal fumo (la malattia da cui cercavo di liberarmi era una polmonite), una decina d’anni fa. La volta che ho scoperto l’esistenza delle arti marziali miste.

Davanti a queste, il mio shock è stato indimenticabile. In gabbie ottagonali, circondate da folle di decine di migliaia di spettatori urlanti, uomini nerboruti (nonché un numero crescente di donne) si battevano a calci, pugni e gomitate. Spesso gli incontri terminavano a terra, con i contendenti impegnati a strangolarsi o a torcersi gli arti sino a slogarseli. Le facce erano coperte di sangue, gli occhi sigillati dalle ferite alle arcate sopraccigliari, le fronti deformate dai bozzi.

Uno spettacolo splatter, che non poteva suscitare nel convalescente, perennemente afflitto dalla nausea da antibiotici, una sorta di ripugnanza. E, perché no?, di attrazione morbosa. Alla fine, alle Mma ho dedicato alcuni saggi e recentemente un libro (Sangue nell’ottagono. Antropologia delle arti marziali miste, Il Mulino 2022).

Ritorno all’antica Roma

Booker DeRousse fights Daryl Cobb, right, in a Strikeforce mixed martial arts match Saturday, May 15, 2010, in St. Louis. (AP Photo/Jeff Roberson)

Siamo sinceri. La violenza esplicita, cruenta (graphic, come si dice in inglese), è diventata da tempo uno dei principali fattori di successo dei film e delle serie televisive. Un coroner che seziona un cadavere o un medico che ricuce una ferita da taglio o da arma da fuoco è parte integrante, oggi, dell’immaginario cinematografico.

Qualcosa che sarebbe stato impensabile sessant’anni fa, quando ero adolescente e passavo i pomeriggi nel cinema di quartiere. Allo stesso modo, nei fumetti, uccisioni e ferimenti non sono più stilizzati con il ricorso a stereotipi visivi del tutto innocenti: Tex Willer poteva eliminare a colpi di pistola intere bande di criminali e di indiani felloni senza che una goccia di sangue macchiasse camicie e casacche dei caduti.

Un semplice “zip” rappresentava le traiettorie dei colpi, mentre i morenti si limitavano a un sobrio “ah!”, se non al più razzista “urgh!”. Oggi, al contrario, i manga eccedono in dettagli sanguinolenti, e non è il caso di parlare nemmeno dei videogiochi, come Mortal Kombat.

Ma il punto è che, di fronte al sangue fictional, posiamo sempre dire a chi ci siede accanto e si copre gli occhi: “Ma su, è solo cinema!”. Questo non avviene nelle Arti marziali miste, in cui i fighter si fanno male sul serio. Sangue e sofferenza sono reali e oltretutto esibiti di fronte a folle plaudenti. Ecco perché, quando ho scoperto l’esistenza delle Mma, ho avuto la sensazione travolgente di assistere a un cambiamento culturale profondo.

Nell’occidente sviluppato e iper tecnologico si stava diffondendo uno spettacolo cruento che, con le debite differenze e i necessari accorgimenti storico-metodologici, non poteva non ricordare i combattimenti dei gladiatori dell’antica Roma…

Come sono nate

Foto AP

Le Mma, intese come pratica professionistica, esistono da circa trent’anni – da quando, nel 1993, il regista John Milius (Conan il barbaro, Un mercoledì da leoni ecc.) e un gruppo di pubblicitari e promoter di eventi spettacolari ebbero l’idea di organizzare a Denver, in Colorado, il primo evento di Ufc (Ultimate Fighting Championship).

L’idea era semplice. Fighter provenienti da arti marziali diverse (jujitsu, sumo, karate, kickboxing ecc.) si sarebbero battuti per un premio di 50mila dollari allo scopo di stabilire quale fosse l’arte marziale più efficace.

L’unica regola era la mancanza di regole, a parte la proibizione di morsi e tentativi di accecamento. Gli incontri, come recitava l’invito ufficiale, si sarebbero conclusi «per l’intervento dell’arbitro, ko o morte di un contendente». Il singolare torneo fu vinto da Royce Gracie, esponente di una celebre dinastia brasiliana di lottatori, che sconfisse un feroce kickboxer utilizzando tecniche di grappling, che consistono nell’intrappolare letteralmente a terra l’avversario, bloccandogli gli arti o strangolandolo.

Perché l’evento ebbe luogo a Denver? Perché all’epoca il Colorado non disponeva di una commissione sportiva statale, e quindi tutto quello che non era ufficialmente proibito era consentito. Dopotutto, gli Usa sono la patria moderna della libera iniziativa e quindi i rischi corsi dagli atleti-fighter rientravano nel prezzo che i partecipati a sport pericolosi (football americano, hockey su ghiaccio, pugilato ecc.) sanno di poter pagare.

Ma Ufc, in cui i fighter si infliggevano ferite sanguinose e rischiavano la vita, era un’altra cosa. Poteva soddisfare la voglia di sangue del pubblico di appassionati, che accorse numeroso (8mila spettatori allo stadio, 90mila in televisione). Ma non poteva non suscitare un dibattito morale sulla liceità di dei combattimenti estremi.

Il terzo sport più popolare

Illustrazione Pixabay

John McCain, lo scomparso senatore repubblicano sconfitto nel 2008 alle presidenziali Usa da Barack Obama, cercò di impedire la diffusione delle Mma, accusandole di essere una forma di cockfighting o combattimento di galli tra esseri umani, ma il successo travolgente dei degli incontri nelle gabbie ottagonali ebbe la meglio su qualsiasi considerazione morale (e anche il senatore si ricredette, proclamando, poco prima di morire, l’eccezionalità sportiva e atletica dei fighter di Mma).

Oggi, Ufc ha un fatturato di più di 500 milioni di dollari annui e un numero di follower e tifosi  che si aggira intorno al 5 per cento della popolazione mondiale (compreso ovviamente il sottoscritto, anche se motivato da fini scientifici…). Gli incontri di cartello, maschili e femminili, possono richiamare sino a 50mila spettatori. In questo senso, le Mma sono considerate il terzo sport più popolare al mondo, dopo il calcio e il basket.

A uno come me, sociologo e antropologo, l’interesse dilagante per le Mma in tutto il pianeta (compresa l’Italia, ovviamente) suscita soprattutto un interrogativo. È proprio vero che la direzione prevalente della società globale è verso la razionalizzazione e l’addolcimento dei costumi, come sostenuto da teorie sociologiche diffuse (per esempio quelle della scuola di Norbert Elias)?

Come può un mondo (per lo più) inorridito, almeno ufficialmente, dalla pena di morte e dalle torture, tollerare che uomini e donne si massacrino nelle gabbie ottagonali, rischiando infortuni seri e lunghi ricoveri in ospedale? Qual è la motivazione profonda che spinge un crescente numero di giovani a tentare la fortuna nelle palestre e spesso nei circuiti professionistici?

Come gladiatori

Foto AP

Le mie risposte sono necessariamente ambivalenti. Spesso, la teoria sociale e antropologica dimentica che il cosiddetto progresso sociale e culturale si accompagna alla diffusione di guerre e conflitti armati, che ha trasformato l’ultimo secolo nel periodo più cruento della storia.

In questo senso – ecco l’unico paragone accettabile con l’antichità –le Mma svolgono la stessa funzione di combattimenti dei gladiatori nella Roma tardo-repubblicana e imperiale. Entrambi ci ricordano che versare il sangue di nemici e avversari, in guerra e negli sport estremi, non è un’eccezione, ma una pratica profonda e consolidata dell’umanità.

I cittadini romani dovevano ricordarsi sempre che il loro status di parassiti privilegiati (pane e circo…) riposava sulle guerre di conquista. Forse, oggi, i ragazzi entusiasti di Mma –a discapito del pugilato, declinante nel favore del pubblico – trovano nelle gabbie, come fighter o spettatori, il senso profondo di una cultura globale basata sulla competizione e la violenza armata.

Con la differenza sostanziale che il nostro mondo può permettersi di accettare la violenza estrema nello sport, senza dichiararla tale, magnificando le imprese di Conor McGregor, Ronda Rousey e Chabib Nurmagomedov come mere prestazioni sportive. In questo senso è l’ipocrisia, più che l’addolcimento dei costumi, a dominare progressivamente la società globale.

Alessandro Dal Lago ha insegnato Sociologia della cultura nelle Università di Milano, Bologna e Genova ed è stato visiting professor nella University of Pennsylvania e nella University of California. Oltre il Sangue nell’ottagono. Antropologia delle arti marziali miste, l’ultimo suo libro pubblicato dal Mulino è Viva la sinistra (2020).

© Riproduzione riservata