Valencia, nei miei sogni sembra sempre/ di sentire il dolce tuo respir./ Valencia, dove gli alberi d’arancio profumano la brezza/ laggiù in riva al mar.

Bing Crosby e l’orchestra di Paul Whiteman, uno degli inventori dello swing commerciale, ebbero il grande successo internazionale dell’anno 1926 con l’arrangiamento di questo paso doble scritto da Josè Padilla per un’operetta spagnola, passato al cinema e inciso sui dischi. A tal punto il ritmo “asimmetrico” da toreri e amori passionali restò nell’aria che Theodor Wisegrund Adorno, 25enne critico di Anbruch. Mensile di musica moderna, incluse questa tra le canzonette da sottoporre ad analisi in un articolo del 1929.

Valencia è il mondo immaginario in cui «la borghesia esclusa, impoverita, fatta a pezzi» cerca rifugio, scrive il giovane critico nell’anno della grande crisi e dell’ascesa del nazismo, il Mostro che negherà per sempre, nella sua testa, l’innocenza di ogni canzone popolare. Benché il metro di 6/8 sia indubbiamente nuovo e curioso – continua passando al lato tecnico – «ogni irregolarità si spegne nella banalità generale del pezzo». E aggiunge: «L’editore, come ogni buon pubblicitario, è certamente più preoccupato del titolo, del testo, delle prime otto battute del ritornello».

La promessa di felicità

Ma Adorno guarda più lontano, sente la promessa di felicità che le canzoni regalano «agli impiegati e alle commesse» e l’inganno che allo stesso tempo nascondono: «La realtà è svanita dalle vite umane, gli impiegati si assomigliano tutti senza distinzione, passano sei giorni alla macchina da scrivere e il weekend con le fidanzate», scriverà a un certo punto, come un cantautore esistenzialista. «L’esperienza di una commessa è come quella di una vecchia madre che piange al matrimonio di qualcun’altro, estaticamente consapevole della felicità che ha perduto», elaborerà ancora qualche anno dopo.

Curioso che una canzone come Valencia appaia anche ne Il lupo della steppa di Herman Hesse (1927), evocata dal sassofonista Pablo al protagonista Hermann come esempio del ruolo sociale della musica, non importa se alta o bassa, Mozart, Haydn oppure no: «Valencia viene riprodotta in silenzio ogni notte da tanta gente malinconica e solitaria. Anche la più povera delle ragazze che batte a macchina nel suo ufficio, lo fa al ritmo dell’ultimo ballabile che ha in testa».

Nella sua Schlageranalysen, una delle prime del genere, ospitata da una rivista di musica colta, anzi coltissima, si uniscono la lettura sociologica, l’analisi tecnica, una scrittura sarcastica nello spirito di Karl Kraus (a Vienna non perdeva una sua serata a teatro). A Sigmund Krakauer, giornalista e sociologo, maestro di filosofia e di vita (e di lui segretamente innamorato perfino), Adorno ruba lo sguardo sul mondo degli impiegati e delle commesse, con qualche riflessione sulla comune passione per i gialli e il loro funzionamento, embrione di quello che più avanti sarebbe diventato il suo monumentale lavoro sull’industria culturale.

Polemico e ultrasnob

Tolte le canzonette è già un critico radicalissimo, polemico e ultrasnob. Teorico dell’atonalità, seguace di Arnold Schoenberg e allievo di Alban Berg col quale ha privatamente studiato composizione a Vienna. «La musica moderna – scriverà – assume su di sè tutta l’oscurità e la colpevolezza del mondo». Dimostrerà specie dopo il suo esilio americano che la musica è capace di dire qualcosa di fondamentale sull’esistenza umana soltanto quando vive fuori dalla logica pervasiva dei media, tempo rubato alla vita e venduto alla pubblicità, infantilismo, regressione, il meccanismo di ripetizione delle canzoni.

Passa per questo alla storia della cultura come uno snob, il superstite di un Europa antica e polverosa, il primo degli apocalittici. Nella macchina infernale della sua dialettica finirà stritolato malamente il jazz, con parole delle quali neppure i suoi studiosi sanno ancora capacitarsi. Stessa sorte per la canzone di protesta, il rock. Tutte cose che lui, morto nel ’69, avrebbe avuto tutto il tempo di ascoltare e distinguere ma sulle quali si era già fatto un’idea fin troppo chiara.

Conosco un piccolo albergo a Wieden, in un vicolo segreto/ La notte è così breve e il giorno arriva in fretta./ Vieni con me, piccola cometa. Ralph Benetzky, autore di canzoni, numeri da cabaret e operette, scrive in un valzerino nel 1915 la cronaca di questo sfrontato rimorchio in un caffè di Vienna. Protagonisti un uomo seduto al Cafè l’Europa e una ragazza bionda al tavolo accanto che mangia il gelato e legge un giornale.

Die Welt hat nur Sonne und Lieder, al mondo ci sono soltanto il sole e le canzoni, di che ti preoccupi? Anche questa canzone finisce sotto la lente della Schlageranalysen: «Mentre la strofa riassume l’espressione di un’individualità separata – nota Adorno – il refrain conserva la memoria del potere collettivo della musica». «Nel kitsch – scrive ancora in un saggio del 1932 – l’uso di stereotipi formali vecchi e sorpassati risveglia l’impressione di un legame collettivo».

Ich kusse ihre hande, Madame, «vi bacio la mano madame (ma sogno la tua bocca rossa)», cantava il tenore austriaco Richard Tauber in una canzone di Richard Ewing che aveva dato il titolo a un film del 1929 con Marlene Dietrich, diretto da Robert Land. Muto a parte la canzone, quanto basta a considerarlo il primo film sonoro tedesco. «Adesso che l’hanno sentita, in molti si sono messi a baciare la mano delle signore. Il modo feudale di mostrare rispetto si è democratizzato, ma è un’illusione – commenta Adorno, con tutto lo snobismo ancora disponibile in quegli anni Venti – La nuova borghesia bacia le mani soltanto per immaginarsi migliore di quella che è».

Il giovane Theodor, ma anche l’attempato professore rotondetto e con gli occhiali, baciava sempre la mano alle signore. Una galanteria che veniva dalla sua educazione familiare, buona borghesia di Francoforte, papà commerciante ebreo, mamma cantante di origine francese. Fatto doloroso in tanta frivolezza è che gli autori e interpreti della canzone Tauber, Land e Vogl erano ebrei. Nel 1933 Land (si chiamava Liebemann) riparò in Cecoslovacchia poi in Italia e infine a Parigi, dove morì nel 1940. Tauber, la cui popolarità come cantante serio e leggero era a dir poco mostruosa, fu aggredito dai nazisti a Berlino, scappò a Vienna poi a Londra. Ervin Vogl, più noto come Ralph Erwin, autore di musiche da film e di canzoni notissime scappò a Parigi dove continuò a lavorare fino all’arrivo dei nazisti. Internato in un capo di prigionia morì nel 1943 a nemmeno 50 anni.

Soprattutto la sorte di Vogl ricorda da vicino quella di Walter Benjamin, uno degli amici più cari di Adorno e di sua moglie Gretel che, respinto alla frontiera spagnola dove cercava di imbarcarsi per l’America e in cattive condizioni di salute, si suicidò per non rischiare di essere arrestato in Francia. La notizia della sua morte raggiunse la coppia che lo aspettava a New York.

Arrivò la sua ultima lettera («Ho paura che abbiamo molto meno tempo a disposizione di quanto immaginiamo»). Arrivò il manoscritto delle Tesi di filosofia della storia, quelle dell’Angelo che guarda le rovine della Storia. Benjamin e Adorno rappresenteranno nella vulgata la sintesi delle posizioni sull’industria culturale del Novecento, cinema, musica, canzonette, l’ottimismo utopico dell’uno e il cupo pessimismo dell’altro. Ma è difficile dimenticare che di mezzo c’è la fine di Weimar, la tragedia del nazismo, l’esilio. A differenza di Benjamin, dal punto di osservazione americano, Adorno può vedere perfettamente lo stringersi del nodo dei rapporti tra democrazia, mercato, media, prima che diventi per tutti la natura stessa delle cose.

La radio

Negli anni Quaranta, a Los Angeles, quando scrive con il suo sodale Max Horkheimer la Dialettica dell’Illuminismo, usa la metafora di Ulisse legato all’albero maestro della nave per resistere al canto delle sirene: «Ulisse riconosce la strapotenza arcaica del canto. Egli si china al canto del piacere, e lo sventa, così come la morte». Una metafora musicale, forse non tanto per caso. Prosaicamente, nei suoi primi due anni americani aveva fatto ricerche sull’uso della musica alla radio con il Princeton Radio Research Project di New York, un progetto finanziato dalla fondazione Rockfeller e legato ai primi esperimenti di misurazione dell’ascolto. Si era simbolicamente legato all’albero maestro della nave, mentre ascoltava le canzoni. Aveva fatto impazzire il capo della ricerca Paul Lazarsfeld e i suoi colleghi sostenendo che chiedere agli ascoltatori di esprimersi con un «mi piace/non mi piace» era del tutto «inappropriato alla situazione».

Posto il tema: «Come può la buona musica essere fatta ascoltare al maggior numero di ascoltatori?», aveva rilanciato così: «Una sinfonia ascoltata alla radio è ancora una sinfonia?». Di conseguenza aveva perso il posto, non senza un certo coraggio dal momento che a quella ricerca era legata in quel momento la sua permanenza negli Usa.

Specialmente per te ecco per cosa vivo, e perchè sono qui/ Specialmente per te cantano gli uccellini,/ le campane stanno suonando. Chissà come arrivò alle orecchie di Adorno questo blues lento dell’orchestra di Orrin Tucker cantato dalla ventenne “Wee” Bonnie Baker con una vocetta innocente da ragazzina. Dalla radio? In un locale? Da uno spartito? In Commodity Music Analysis (Analisi della musica mercificata) ispira un affilato aforisma in cui si evoca l’amato Krauss, la capacità di andare al fondo delle parole per svelare gli inganni del commercio. «L’idiozia di un prodotto di massa creato specialmente per te è una orribile necessità», scrive, confondendo di proposito le illusioni degli innamorati e quelle dei consumatori: «Il cinismo ha una funzione precisa, serve a far capire al consumatore che è stato preso in giro». E così ritorna al suo incubo, la radio: «La risata che ci è familiare alla radio è quella in cui l’annunciatore ride di quelli che ridono di lui. (...) Il consumatore sa bene che non ha altra scelta che accettare quella risata».

Parole senza canzone

Le biografie (da ultimo quella monumentale di Muller-Doohm, 2015) ce lo dipingono come un corteggiatore di buone maniere. «Niente di macho o virile, ma sempre disinibito e infantile». Alberto Arbasino, che lo aveva incontrato nel 1969 asserragliato nell’università occupata a Francoforte, citava impietosamente certe voci delle impiegate Einaudi nei corridoi a Torino.

Adorno si era sposato solo poco prima di partire per l’esilio americano con la fidanzata di sempre Gretel, conosciuta a Berlino negli anni ’20 nel giro dell’amico Walter Benjamin. Nel ’31 a lei aveva dedicato Worten ohne lieder, delle «parole senza canzone» pubblicate da Frankfurter Zeitung, una riflessione sull’amore, la fedeltà, la forza dei legami nell’attesa di un treno in ritardo. È dedicato a Gretel anche uno degli aforismi più noti di Minima Moralia: «Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza». Non furono mai un mistero, in una relazione durata quasi 50 anni, i tradimenti e le amanti, alle quali spesso Adorno dedicava poesie dal tocco (dicono) baudelairiano. «Perdonami cara, per averti inventato/ Chi avrebbe potuto creare una simile creatura? (...) Tu somigli alle parole che hanno sempre conquistato i miei occhi e le mie orecchie», scriveva all’attrice Renee Neill – qui siamo già a Los Angeles.

Nonostante tutto, in quegli anni Trenta quando vive tra Vienna, Berlino, Oxford, indeciso se diventare musicista o insegnare filosofia all’università, è ancora presto per chiudere definitivamente i conti con tutto quanto puzza di canzonetta, pubblicità, capitalismo. Spietato nella critica a Igor Strawinsky e a Paul Hindemith che considera reazionari per i loro pastiche neobarocchi nei quali il tempo scorre all’incontrario, Adorno sembra ancora disposto ad arrendersi al divertimento (all’amore e, chissà, alla scemenza). Almeno, a perdonarlo a sé stesso e agli altri. Proustiano nell’evocare il legame tra la musica, la memoria, la nostalgia. Usa spesso il concetto di kitsch. Scrive in un articolo per Anbruch: «La difesa del kitsch non deve essere sottovalutata come un’ingenua approvazione (...). Il kitsch è un oggetto di interpretazione di grande significato. Perciò vorrei proporre delle linee guida per il trattamento dettagliato della questione». Il che rende particolarmente preziose, e in qualche modo struggenti, queste note.

Commodity Music Analysed è un saggio direttamente prelevato dai Gesammelte Schriften (22 volumi per Surkampf Verlag) e poco tradotto dal tedesco, una raccolta di aforismi nello stile dei Mimima Moralia, scritti tra il 1934 e il 1940. Testi “kraussiani”, ispiratissimi, con una particolare attenzione verso il kitsch colto, il midcult. Si apre con una formidabile lettura dell’Ave Maria “matrimoniale” di Gounod-Bach in cui – sostiene Adorno – si nascondono allo stesso tempo religione e pornografia, penitenza e seduzione.

Come un disinvolto music-hall di Maddalene mezze nude, la musica calzata sulle parole, l’estasi raggiunta con la pronuncia di peccatoribus: è il «momento in cui le gonne si alzano per rivelare le calze», scrive. Poi si fa improvvisamente serio: «Sparita dalla musica d’arte la felicità utopica, questa si conserva nella musica volgare ma in forma di caricatura».

Il «grandioso» Preludio in do minore di Rachmaninov è uno dei preferiti nei saggi di piano dei ragazzini, ricorda di seguito. «Suona tremendamente difficile e in ogni caso molto rumoroso. Ma è confortevolmente facile da suonare. I ragazzini sanno che l’effetto colossale non si può mancare e il trionfo è assicurato senza grande sforzo.

Sull’infantilismo degli ascoltatori, letto attraverso un uso disinvolto e spesso selvaggio della psicanalisi, Adorno costruirà più di un ragionamento contro la musica leggera e la programmazione della radio commerciale. Questo Rachmaninov suona come «una lunga cadenza finale, un insaziabile, ripetitivo ritardando», cioè uno dei gesti spettacolari della musica Romantica che il presente ha incaricato di mercificare come tutto il resto. Invece, Humoresque di Anton Dvorjak – insiste più avanti – è come uno di quei rompicapo enigmistici pubblicati dai giornali. «Dov’è nascosto il ladro? Dov’è nascosto lo humor in Dvorjak?» Un pezzo rassegnato, un lungo tramonto. «Così è la vita: sempre lo stesso. Non ci si può fare niente».

Debolezze borghesi

Compositore di brevi pezzi per pianoforte – nello stile di Schoenberg – di alcuni lied e quartetti per archi, esecutore allievo di Eduard Steuermann, uno degli interpreti della dodecafonia tedesca, Adorno non disdegnava mai di sedersi al piano a intrattenere ospiti e amici. Le biografie, piuttosto scarne nel ricostruire la sua vita privata, ricordano che in queste esibizioni improvvisate non mancavano cantabili di Wagner, Beethoven, persino Verdi.

Dal 1941 vive a Los Angeles in una casa a Santa Monica, pochi chilometri dall’oceano, una prigione dorata. Adorno e Gretel incontravano talvolta i vicini: Thomas Mann, Bertold Brecht, il sodale Max Horkhemeir. Nel 1947 Charlie Chaplin lo invita nella sua villa a Malibù a una proiezione privata di Monseiur Verdoux. Ne fa l’imitazione mentre al pianoforte lui suona Mozart, l’ultima possibilità – diceva – per la musica popolare e la musica colta di trovare una convivenza non forzata né kitsch.

Sono le debolezze borghesi di Adorno, il suo rapporto di odio-amore con le canzonette, il suo pianoforte, le avventure critiche tra Weimar e l’America a restituire un sapore diverso alla radicalità dei suoi scritti musicali. C’è un aforisma dei Minima Moralia – scritto in quegli anni americani - che supera il tempo e ci arriva dritto come una freccia: «Oggi nella cultura di massa il progresso e la barbarie sono così strettamente intrecciate, che solo un’ascesi barbarica contro quella e contro il progresso dei mezzi sarebbe in grado di ristabilire il non-barbarico. Non un’opera, non un pensiero ha la possibilità di sopravvivere in cui non sia esplicito il rifiuto della ricchezza e della produzione di prima classe del technicolor e della televisione, delle riviste in carta patinata e di Toscanini».

Adorno continua a tenere aperta per noi la possibilità di un’altra dimensione nell’ascolto della musica. Fuori dalla radio, dai dischi, dalla tv, lontano da Spotify. Radicale, ascetica. Persino «non udita» - come scrive nel finale di un capitolo della Filosofia della musica moderna in una delle sue frasi più vertiginose di tutte - e perciò «precipitata a una sfera esiziale nel tempo vuoto», nell’assoluto venir-dimenticato. «Essa è davvero - conclude Adorno - il manoscritto in una bottiglia».

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