Sulla pagina YouTube del «New Yorker» è pubblicato il video più eclatante dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Il compassato settimanale pubblica le sconvolgenti immagini girate dal reporter Luke Mogelson, americano bianco capace di confondersi senza sforzo in una folla inferocita alt-right trumpiana e dotato di sufficiente coraggio per rimanere lì, al centro della storia nazionale, che quel giorno prende la forma della contestazione-farsa – pilotata da Donald Trump – alla vittoria democratica alle presidenziali.

Mogelson ha scritto un libro imperdibile – che ho avuto la fortuna di tradurre per Orville Press, il nuovo marchio dell’editor, scrittore e traduttore Matteo Codignola, già colonna di Adelphi. Per contestazione-farsa intendo cose come questi scambi tra Chansley (il celebre sciamano di QAnon col copricapo indiano), un Proud Boy a caso e un poliziotto: «Mentre siamo ancora sul podio entra un Proud Boys con i guanti da motociclista e una camicia di flanella gialla e nera. Questo è il nostro Campidoglio, mi raccomando il rispetto», dice a Chansley. Poi, all’agente: «Noi vi vogliamo bene, ragazzi. Vogliamo bene alla polizia».

«Apprezzo l’aiuto, grazie».
«Sì, lo so. Qui comando io».
«Qui comanda lei?».
«No», fa il Proud Boy.

Tutti a ridere. «E io che stavo per dire, porca puttana, ho trovato la gallina dalle uova d’oro,» ridacchia l’agente.

«Non abbiamo un comando centralizzato», fa Chansley.
«Che peccato».

Per farsa intendo cose come la preghiera intonata di lì a poco dallo sciamano QAnon: «Grazie, Padre Celeste, per averci concesso l’occasione... un attimo, devo prima...». Abbassato il megafono, Chansley si toglie il copricapo indiano e lo posa sulla scrivania.

«Grazie, Padre Celeste, per averci concesso l’occasione di difendere i diritti inalienabili che tu ci hai dato», riprende. I trumpiani chinano il capo; un paio si inginocchiano. Arrendendosi al momento, al suo spirito, Joshua Black leva le mani al cielo. Nella sua confessione su YouTube ricorderà: «Ho lodato il nome di Gesù nell’aula del Senato. Questo era il mio obiettivo. E credo fosse anche l’obiettivo di Dio».

Sono parole facili e ridicole, ed è ormai ampiamente documentato dalle inchieste incorso che i ragazzi orgogliosi (e orgogliosamente razzisti) e compagnia bella sapevano di godere dell’impunità e sono anzi rimasti stupiti nei pochi casi individuali in cui hanno dovuto pagare.

Mogelson ha lavorato in medioriente, è abituato a bombe e ordigni sporchi, e successivamente si è spostato sul fronte ucraino, quindi ha preso questa missione di raccontare le agitazioni americane sotto pandemia senza spaventarsi troppo, attento solo a capire e mappare movimenti e agitazioni durante la pandemia, che portano l’America dalla primavera degli anti-vax e di Black Lives Matter all’inverno scontento dell’eversione/gita fuori porta di quell’accozzaglia di millenaristi e nazisti omeopatici sostenuti dai parlamentari trumpiani.

Nei video su YouTube, che non possono non far venire voglia di leggere questo libro per capire tutto ciò che ribolle nell’America dei ranch, degli spazi aperti e dell’autarchia, si vede l’assalto in massa sotto le impalcature, si sentono le urla letteralmente belluine dei nuovissimi repubblicani: «I rivoltosi hanno messo le mani su Michael Fanone, un agente della narcotici… l’hanno trascinato a testa in giù per i gradini strappandogli di dosso casco e caricatori, per poi colpirlo con pugni, calci, bastoni e aste di bandiera.

Intanto la folla scandiva: «U-S-A!». … Gli hanno sparato al collo diverse volte col taser – «a ripetizione, senza fermarsi». Poi lo hanno preso a calci e pugni finché non è svenuto. Prima che i colleghi riuscissero a intervenire ha avuto una commozione cerebrale e un infarto.

Un’ora dopo, nel mezzo di un furioso corpo a corpo all’imboccatura del tunnel, Rosanne Boyland, una trentaquattrenne della Georgia, è morta calpestata. Le body-cam della polizia mostrano un amico accovacciato sul suo corpo inerte che scongiura, disperato, i compari: «È morta! Aiutatemi!».

Uno proprio accanto lo ignora, continuando a spruzzare peperoncino, mentre un altro urla «Strappiamogli le maschere!». Poi qualcuno si lancia, calpestando Boyland, per provare a togliere il manganello a un poliziotto.

«No! No!» implora l’amico di Boyland.

Non gli danno retta. «Ora ti uccido, cazzo!» dice un trumpiano a un agente che, come Fanone, viene trascinato giù per i gradini, accanto alla donna appena morta, e caricato dall’orda.

L’assalto al Campidoglio è approfondito in tutte le sue cause e possibili sviluppi e ne viene messa in luce l’organicità rispetto al nuovo corso del partito repubblicano con Trump e i trumpiani.

Il significato dell’assalto

Per Mogelson, il 6 gennaio può essere visto come «il momento in cui si consuma, in tempo reale, un passaggio tumultuoso fra due ere del conservatorismo molto distinte. Prima del 2020, la quasi totalità dei conservatori portava in palmo di mano la polizia, ritenendola nel complesso la migliore garanzia di un sistema che avrebbe continuato a tutelare, senza sorprese, i loro interessi; a fine 2020, molti erano arrivati a considerare quello stesso sistema corrotto e tirannico, se non addirittura satanico. … Il 6 gennaio è apparso chiaro che la resa dei conti non si poteva più rinviare, e non sorprende che in molti, da una parte e dall’altra, abbiano insistito a rispettare il patto, non importa se obsoleto. Il plotone di poliziotti subissato dagli abbracci e dalle proteste di affetto degli stessi trumpiani che un secondo prima li avevano aggrediti deve aver vissuto lo stesso senso di disorientamento di certe vittime di relazioni violente… Nella sua testimonianza al Senato, l’agente Harry Dunn ha raccontato di un rivoltoso che «se non sbaglio aveva sul petto un distintivo dei nostri, e mi ha detto: “Lo stiamo facendo per voi”».

Come per consegnare a futura memoria questa dissonanza, un paio di minuti dopo che ero uscito dal Campidoglio Trump ha twittato: «Ricordate, il partito dell’ordine e della legalità siamo noi».

Durante quell’anno breve che parte dalle ordinanze anti-covid di marzo e finisce, apertissimo, il gennaio successivo, le piazze si riempiono sia da destra che da sinistra. Mentre traducevo questo libro ero curioso, man mano che procedevo, di capire se sarebbe spuntato il buon senso alla «New Yorker», una costante posizione di centro a volte mascherata da eleganza.

Mogelson però non è da «New Yorker»: se è vero che su temi delicati come il definanziamento della polizia ha una posizione tutt’altro che estrema, è bello leggere il suo debunking delle accuse esplicite o implicite che gli americani rivolgono al movimento Antifa, cioè in pratica agli antifascisti (accusati di solito di non aver conosciuto il fascismo).

I Proud Boys

Insieme alle parti dedicate alle radici e alle attività di Black Lives Matter, la sua difesa di Antifa, scesa in piazza ad avversare il bullismo politico (ossia letteralmente il fascismo) dei Proud Boys, è la cosa più toccante del libro: «Via via che i Proud Boys svoltano l’angolo di corsa si bloccano tutti. E anche quando una ragazza black bloc comincia a battere lo scudo a ritmo sull’asfalto, provocandoli come fossero un branco di animali, i Proud Boys non abboccano. Ripenso spesso a questa scena. Mi conforta sapere che ci sono persone disposte a opporsi a gente come i Groypers e i Proud Boys: disposte a mettere i propri corpi davanti a loro per impedirgli di passare. Durante gli eventi che portarono alla Seconda guerra mondiale, gli antifascisti europei ripetevano spesso un slogan molto popolare: “Non passeranno”. Fu usato dalla sinistra francese nel 1934 quando i movimenti di estrema destra insorsero a Parigi cercando di rovesciare il governo…».

Questa volta, a Washington, «appena qualche decina di americani ha osato, voluto contrapporsi ai Patriots che impazzavano in tutta la capitale. Ma su L Street è bastato. Non sono passati».

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