Visibilità e contenuti da monetizzare: l’attivismo non scada nel marketing

Cosa succede quando la discussione politica, le battaglie per i diritti civili e la critica al sistema si spostano su spazi progettati per catturare e monetizzare l’attenzione traendo profitto dalle nostre interazioni? Come possono il dissenso e il dibattito politico essere assoggettati ad algoritmi che premiano la visibilità e rispondono a strategie proprie del marketing digitale? È una domanda che mi pongo da molto tempo e che negli ultimi giorni si è mostrata estremamente attuale. Da circa una settimana, infatti, una parte dell’attenzione mediatica italiana si è concentrata su una vicenda che riguarda alcune figure molto visibili dell’attivismo digitale. Da una parte, la procura di Monza ha concluso le indagini nei confronti di Carlotta Vagnoli, Valeria Fonte e Benedetta Sabene, ipotizzando una campagna denigratoria online contro A. S. e Serena Mazzini. Dall’altra, su un quotidiano nazionale è stata pubblicata un’inchiesta firmata da Selvaggia Lucarelli, con estratti di una chat privata alla quale – oltre alle tre persone indagate – partecipavano anche Flavia Carlini, Karem Rohana e Giuseppe Flavio Pagano. Questa chat mostra insulti, toni aggressivi e riferimenti a possibili strategie di delegittimazione. Secondo le cronache giudiziarie, i messaggi sono stati acquisiti nell’ambito delle attività d’indagine, ma la loro circolazione pubblica ha ampliato il conflitto con risposte, smentite e contro‑accuse. È un passaggio significativo perché i due versanti della vicenda si muovono in realtà nello stesso ecosistema, e la disputa si trasferisce immediatamente sul terreno della visibilità e della reputazione. Meno social, più piazze. Fare femminismo non è essere un’influencer Trasfigurazione del conflitto Non è un caso che, dopo l’articolo, buona parte della conversazione tra le persone coinvolte sia proseguita su Instagram attraverso storie e repliche, confermando una trasfigurazione del conflitto nell’economia dell’attenzione, in cui il dissenso coincide con la performance e l’arena politica si confonde con il feed di un’app privata. Già Debord aveva intuito che quando la vita è assorbita dalla rappresentazione, a mutare non è solo il linguaggio ma la sostanza dell’agire politico. Non mi interessa assolutamente entrare nel merito delle azioni individuali o anticipare esiti processuali, vorrei piuttosto partire da questa vicenda per riflettere su come oggi si costruiscono credibilità politica, conflitto, consenso e sanzione nell’ambiente digitale. Mi colpisce non solo ciò che viene detto, ma il modo in cui prende forma il discorso, ovvero una sequenza di esposizioni, risposte e contro‑risposte in cui la reputazione diventa terreno di contesa e misura del potere di incidere sull’opinione pubblica. L’indignazione – da una parte come dall’altra – non è solo una reazione morale, è un meccanismo di visibilità. Questa vicenda riguarda la fragilità di un intero sistema. Il digitale ha aperto spazi essenziali, ha dato voce a soggettività marginalizzate, facilitato l’organizzazione dal basso; ha reso accessibili saperi, reti, mutuo supporto e partecipazione a tante persone per le quali il mondo offline è spesso inaccessibile. Ma la sua infrastruttura non è neutra, e questo va ricordato. In particolare, i social non sono piazze pubbliche ma aziende private che estraggono valore dall’attenzione. E il conflitto genera attenzione. Il metodo call out: schedare abuser senza alcuna prova Militanza o posizionamento? In questo ambiente la militanza tende a diventare immagine, e l’immagine a farsi posizione morale. Lo spazio politico allora si trasforma in dispositivo di posizionamento. Così, da una parte abbiamo il call-out, cioè rendere pubbliche sui social le accuse verso una persona per spingerla a rispondere e per mobilitare l’opinione pubblica. Dall’altra, la pubblicazione sulla stampa come forma di esposizione che funziona da sanzione. Palcoscenici diversi, logica comune. L’errore è trattato come rottura definitiva che invoca l'espulsione, non c’è interesse a trasformare il conflitto ma desiderio di produrre un verdetto. E il problema non è il conflitto in sé: senza confronto non c’è trasformazione. La difficoltà nasce quando il conflitto entra esclusivamente nella logica della piattaforma, quando diventa contenuto che deve circolare, produrre reazioni e trattenere attenzione. A quel punto, le questioni si comprimono in frammenti, la complessità si riduce a slogan facilmente digeribili e il tempo per analisi e discussione svanisce. Se l’attivismo accetta che a regolarlo sia uno strumento pensato per finalità commerciali, ne interiorizza inevitabilmente i criteri. La visibilità sostituisce l’organizzazione, la performatività prende il posto della costruzione di senso e di comunità, mentre il giudizio pubblico diventa l’unico tribunale immediatamente disponibile. Ma una trasformazione reale nasce dall’affrontare il danno e cambiare i contesti che lo rendono possibile, nasce da una visione della giustizia trasformativa, non dall’espulsione o dalla semplice e facile condanna. In pratica, non si tratta di espellere ma di trasformare, riconoscere il danno, mettere al centro chi l’ha subito, capire come si è prodotto e impegnarsi affinché non si ripeta. La maturità di una comunità si misura pure dalla capacità di mantenere le relazioni anche nelle contraddizioni, e di ricostruire i legami dopo le fratture. Ovviamente questa vicenda è un sintomo, non un’eccezione. E lo è in un momento in cui manifestare diventa più difficile, il dissenso è disciplinato, la protesta è narrata come minaccia. In una cultura che si pensava democratica, oggi sempre più spesso chi si mobilita viene sorvegliato, isolato, intimidito anche fisicamente. Quando il potere reprime, un attivismo che si consuma nella rappresentazione invece di costruire reti anche materiali, rende più vulnerabili proprio le persone che vorrebbe difendere. Chiuse le indagini su Vagnoli, Fonte e Sabene. Le tre attiviste femministe sono accusate di stalking Quale attivismo? Allora la domanda, che non riguarda il caso specifico ma la nostra capacità di protesta generale, è se vogliamo un attivismo che brucia nell’istante in cui diventa visibile, oppure uno che genera trasformazioni stabili nei rapporti di potere. Se la politica resta intrappolata nell’episodio singolo, perde la capacità di trasformare le strutture che organizzano la nostra vita sociale, economica e istituzionale. Il tempo è poco, le risorse sono poche, l’urgenza è enorme. In questo momento abbiamo bisogno di un pensiero che non si lasci sottomettere dalle dinamiche commerciali di piattaforme private e che metta in discussione il sistema che le sostiene. Mi riferisco a quello che Nick Srnicek ha definito capitalismo delle piattaforme, o che Shoshana Zuboff ha chiamato capitalismo della sorveglianza, un sistema che rende strutturali le disuguaglianze, sfrutta lavoro e attenzione, trasforma i contenuti che produciamo gratuitamente in materia prima, e impone logiche di partecipazione orientate al profitto. Parafrasando Audre Lorde, gli strumenti del padrone non smantellano la casa del padrone, possono forse concedere qualche vittoria tattica, ma non abilitano un cambiamento reale. Non possiamo pensare di usare gli stessi dispositivi per scalfire le logiche che li alimentano. Dobbiamo impegnarci a riconoscere la conflittualità come parte della democrazia, non come contenuto da monetizzare; una pratica politica che restituisca centralità anche alle condizioni materiali, ai rapporti di potere, alla responsabilità reciproca e alla costruzione lenta di comunità e istituzioni capaci di reggere nel tempo. Fabrizio Acanfora è scrittore, musicista e docente. Studioso di disability e critical autism studies, è autore tra gli altri di Rompere il Gioco. L’attivismo nel Ventunesimo secolo, edito da effequ.