Il sabato mattina a Milano, nella mia zona, è sabato mattina. Ciò vuol dire, essenzialmente, che ci sono persone che si muovono a diverse velocità, come elettroni drogati da diverse sostanze o moscerini al buio; non sanno intorno a cosa muoversi.

Vagano loro; vuotamente eccitati: piccoli gruppi, coppie, amiche, famiglie. Ognuna ha il suo passo, che ho imparato a studiare dalla mia finestra, tra corso Genova e porta Ticinese. Li vedo parcheggiare, in divieto di sosta, eccitati dalla visita in centro – quasi in centro, ché questo è quartiere asimmetrico e misto, ci sono ancora le vecchine e i giovani creativi che l’hanno gentrificato, come me, che però ci sono nato. Ora sono adulti con cani, bambini e station wagon.

Io, per vantarmi della mia sensibilità, ho condiviso con la mia fidanzata l’acquisto a rate di un veicolo ibrido, che ci serviva per andare in campagna, in Val Trebbia, dove avevamo una casa in affitto divisa con un numero di amici così alto che non c’era mai posto. Ma almeno c’era l’idea, prima che le proteine del Corona ci impedissero l’accesso a quelle ben più desiderabili e facilmente reperibili nel piacentino – e curabili con un grappino.

Il paesino di Ottone

Mentre osservo un sessantenne che guida con la mascherina solo in auto e gli voglio subito bene, mi viene in mente la storia di quel paesino appoggiato sulle linee di confine tra Emilia, Lombardia, Liguria e Piemonte. Ottone.

Il sindaco il 7 novembre decise di piazzare dei blocchi di cemento sulle provinciali che raggiungono il paese dalle altre regioni, distanti tutte tra gli 0 e i 3 chilometri. Meravigliosa metafora dell’insensatezza dei confini, che, come il problema del sortale (riassumo velocemente: avete un mucchio di sabbia: quanti granelli dovete togliere perché cessi di essere un mucchio?) non possono avere senso, mai, se non quando diventano confini, perché qualcosa che non ha nulla a che fare con loro li rende tali, per un po’.

Comunque. Il piano è andare lì a vedere cosa c’è. Cerco foto di Ottone. Niente di che: strade deserte bloccate, proteste dei commercianti. Lasciamo perdere. Serve un’altra idea. Ho passato la settimana su zoom e a scrivere da solo. Devo uscire. Cioè: devo. Passeggiare in città ora mi è alieno, ipotesi scartata. Con cinema, musei e qualsiasi posto culturalmente interessante chiuso capisco di avere ben poche possibilità. Se non altro la pandemia mi ha fatto capire le priorità della mia vita – ovvero del mio tempo libero, che ci qualifica come persone. Magone.

Non so che fare di noi, dico alla mia fidanzata che con fermezza aveva detto: dobbiamo avere un piano per oggi. Non lavoriamo oggi. Usciamo. Giusto. Usciamo. Ma per andare dove? E poi, all’improvviso, l’illuminazione. Qual è l’unico posto nel quale ci si può sedere e mangiare? Uno solo. L’Autogrill. Andiamo a mangiare in autogrill. Ma quale? Mi torna in mente una notiziola, ovvero che proprio quest’anno è stato parzialmente demolito il celebre autogrill di Lainate, per aumentarne la capienza e dunque il fatturato, l’unica cosa che importa a chi gestisce le autostrade.

L’opera è a poco più di venti chilometri da Milano, si chiama ora Villoresi Ovest, ed è uno dei più di 70 progettati da Angelo Bianchetti per Mario Pavesi. Dopo un road trip con lo stesso Bianchetti – nel 1959 – sulle infinite interstate americane, Mr Pavesini divenne uno dei principali importatori dell’American way of life. Guidi, pisci, mangi, guidi, pisci, mangi. E, un tempo, fumi.

Fu durante il road trip che progettarono gli autogrill a ponte, un monumento condiviso da generazioni di italiani. Il Villoresi Ovest non è a ponte, è invece uno di quelli con i tre altissimi archi tangenti elevati su una struttura poligonale a moltissimi lati, di vetro. Infatti venne realizzato nel 1958, un anno prima del viaggio illuminante. Lo cerco online e scopro che secondo molti siti specializzati (esistono siti specializzati in autogrill ranking) il numero uno oggi è invece il Villoresi Est, quello dall’altra parte, “a vulcano”, realizzato nel 2013 e dotato di un interior design naturalmente ambiziosissimo e impreziosito da un vero bar Motta che nemmeno in Piazza Duomo.

Doppio brunch

Bene, si farà doppietta. Villoresi Est e poi Villoresi Ovest. Doppio brunch autostradale. Ma: è illegale. Non ho urgenza di andare lì. Non ho motivi di lavoro. Non ho motivi di salute (forse psichica, ma quella sappiamo che non conta). Ma grazia vuole che giusto la settimana scorsa ci abbiano smarrito un bagaglio a Malpensa, che i due autogrill giacciano proprio sulla strada per Malpensa e che dunque la scusa per le forze dell’ordine consisterà nell’esibire – a richiesta – il nostro modulo di reclamo per il bagaglio smarrito.

E farci sgamare subito, come nel celebre sketch di Robin Williams che viene fermato dagli sbirri dopo essersi fatto venti canne e avvicinandosi al posto di blocco ripete mille volte tra sé e sé la frase «C’è qualche problema agente?» per poi blaterare un «oirefbv pfwgf ktpsfg?». Cercatelo, fa ridere. Ma noi saremo sobri e determinati. Ci portiamo la macchina fotografica, beviamo un caffè on-the-go e partiamo per la nostra avventura illegale, con un brivido ibrido.

In viaggio, mentre attraversiamo l’inutile sole di Milano, si parla di Ballard (Isola di cemento, il tale che viveva nascosto in uno di quei triangoli d’erba incolta ritagliati dagli svincoli autostradali, rimasugli dimenticati, spazi di risulta, progettati come avanzo di ciò che serve davvero all’uomo contemporaneo); di Cortazar (il libro suo e della moglie, Carol Dunlop, meraviglioso, Gli autonauti della cosmostrada nel quale rimangono in autostrada per trentatré giorni senza uscirne mai e fermandosi in ogni autogrill lungo il tragitto Parigi-Marsiglia – sì, l’idea ci tenta, finire la pandemia tra gli autogrill) e, certamente, di Arbasino.

Io alzo subito il livello parlando dottamente del prosciutto al pepe, il prodotto per eccellenza dell’autogrill, il primo alimento tipico di Dappertutto, simbolo insuperabile della vecchia idea del non-luogo che, trasformatisi in zone franche, sono gli unici che rimangono aperti durante una pandemia. E infatti, andiamo lì a fare il brunch del sabato.

La strada è deserta, blocco la velocità di crociera a 100 all’ora e in silenzio aspettiamo di giungere alla tanto agognata meta. Dove, incredibilmente, ci siederemo e mangeremo a un tavolo. Non dovremo cucinare. Non dovremo acconciare alla bell’e meglio un delivery recapitato da un rider molto più strapazzato (e sfruttato: come ti muovi c’è un dilemma etico, non si può più fare un cazzo) delle uova che ti sta portando.

Delirio onirico sul menù: dopo 10 km immaginiamo che per il week-end al ristorante ci saranno come minimo pappardelle ai porcini e controfiletto con patate arrosto o forse, oddio, sì, uno stinco di porco. Una boccia di rosso buono, e pure un grappino. Inizio a salivare immaginando tovaglie a quadretti, vecchi ubriachi e ostesse prosperose. Rinvengo al cartello Villoresi Est 1.500 metri. Amo molto quando l’indicazione diventa in metri, che c’è un numero altissimo ma ci metti un attimo e ti senti Dio.

Il parcheggio è deserto. Ci eravamo chiesti in auto se fossimo gli unici ad averci pensato. No, nessuno. Solo noi. È chiaro che stiamo molto male, me ne rendo conto ancor di più quando mi chiedo «Ma sarò vestito adeguatamente?». Sono in trance agonistica. Il pensiero che mangerò qualcosa di non cucinato da me e di non portato da qualcun altro sotto la pioggia è intollerabile come le tette della zia bona. Facciamo il nostro ingresso trionfale nell’autogrill.

È deserto.

E il ristorante è chiuso.  

Volevo le pappardelle

Va bene, va bene, non è importante la meta ma il viaggio! Ma stocazzo! La mia fidanzata non fa un plissé e si mette a fare le foto, trascinandomi a vedere il davvero incredibile bar Motta, immagino i ricchi Lainatesi venirci apposta a fare l’aperitivo, parcheggiando macchinone e puttanone fuori e portare a queste ultime in regalo un bel prosciutto al pepe, dopo aver discusso coi propri commercialisti le ultime sull’evasione fiscale.

Io sono fatto di pregiudizi, per pigrizia, che si sappia. Il tipo col macchinone tamarro è un evasore, fine. Al massimo un pusher. Tertium non datur. Ma sto divagando e, soprattutto, non sto mangiando. Il bar – non il Motta, ma un più tipico bar autogrillesco – è aperto.

Ci spiegano, non senza una certa empatia verso la nostra condizione, che il ristorante chiude nel weekend per scarsità di clienti (e quindi sì, conferma, siamo gli unici ad aver avuto l’idea di andare al ristorante all’autogrill). Ridendo ordiniamo un rustico diviso in due e una bottiglia di champagne. La signorina non fa una piega, scompare col rustico e dopo un minuto appare brandendo un Ferrari inscatolato. «È in promozione a 10 euro, se lo vuole». Applausi. Prendiamo un succo di melograno e ci immaginiamo un Bellini sbagliato mangiando il rustico. Ovviamente buonissimo.

Dopo esserci accertati che c’è il prosciutto al pepe (c’è) sgommiamo silenziosissimi (perché ibridi) in direzione McDonald’s drive through di Castellanza, dove prendiamo un gelato che mangiamo parcheggiati davanti a un reticolato che dà su un prato incolto. Siamo felici. Manca il caffè – ci siamo ripromessi di andare a prenderlo al Villoresi Ovest di cui sopra, così vediamo come lo hanno demolito e rifatto. Let’s go.

Il Villoresi Ovest sembra identico, almeno da fuori. Tutto è clinico e organizzato. Il tarmac è a sezioni colorate come una pista d’atletica leggera, i colori a indicare i diversi usi dello spiazzo. I meravigliosi archi del 1958 stanno ancora là, visibili da miglia (ah no, chilometri). Però. Però non c’è nessuno. Ci sono macchine giganti gialle di quelle che fanno cose grosse con le strade e gli edifici e una donna vestita di arancio fluo con un casco da cantiere in testa. Apre domani, ci dice. Wow. Questa è una notizia.

Non abbiamo solo svoltato il sabato. Ma pure la domenica. Proviamo a bere un caffè al minibaretto alla stazione di servizio, che è attiva, ma c’è solo la macchinetta e lasciamo perdere. Mi cade l’occhio sul fantastico cartello «Non comprate cose da venditori abusivi, come: macchine fotografiche, gioielli, radioline». Deve essere del ‘59, massimo ‘60. È bellissimo. Risaliamo sulla nostra silenziosissima auto (è ibrida!) e sgusciamo lenti, quasi schiacciati da un Suv Jaguar che avevo adocchiato prima al compressore, dove il corpulento e impaziente proprietario insufflava nuova vita nelle gigantesche gomme che stavano ora per schiacciarci senza pietà. Mi sono quasi dimenticato della pandemia.

Torniamo a casa. Riposiamoci che dobbiamo pensare a cosa metterci domani, per l’inaugurazione.

Le pappardelle fanno cagare

Al risveglio ci coglie l’angosciosa domanda: ma a che cazzo di ora sarà l’inaugurazione di un autogrill durante una pandemia? E soprattutto: che razza di tempi viviamo per doverci fare domande come questa? E poi: si potrà fare un’inaugurazione? Forse essendo zona franca sì e comunque la signora in arancione era sicura di sé: «Domani si inaugura».

E infatti sì, mentre sfrecciamo da lato opposto dell’autostrada vediamo un pulmino tv (Tele Lainate?) filare via veloce e una certa eccitazione sobria. Scavallato un arzigogolo di svincoli entriamo trionfali al Villoresi Ovest e parcheggiamo ovunque, è tutto libero. Entriamo. Wow. Uno chandelier a motivi floreali che manco alla scala; arredi da clubbettino anni ’50 – un po’ tipo il bar di Motta di fronte – pezzi grossi della ristorazione autostradale, personale tirato a lucido.

La struttura del 1958 è in effetti ancora più stupefacente dall’interno; circolare e sormontata dai tre altissimi archi, il lampadarione che piove appeso al nulla e due diverse aree per consumare il pasto. Sotto il lampadario, al centro esatto del tutto, c’è una struttura cilindrica di mattonelle sberluccicanti, con strani inserti di cristalli kryptonitici che baluginano accecanti e prese Usb. Il cilindro contiene piante molto verdi. Troppo verdi.

Bene, si mangia, sì, si mangia, seduti, serviti e riveriti – o quasi. Le padelle sono vergini. Nuovissime. La scelta (come di consueto si parte dai dolci, li mettono all’inizio perché alla fine non lo prenderesti mai, e infatti noi lo prendiamo; è una torta di crema al pistacchio a molti strati con un cioccolato decorato sopra) e poi via ai secondi (vale la regola di prima, è tutto al contrario). La mia fidanzata prende prudente un pollo alla piastra. Io non ci posso credere quando vedo che in effetti ci sono le pappardelle ai porcini che sognavo ieri. Le prendo. Pago. Conto salatissimo, tipo trenta euro per due piatti un dolce e un’acqua.

Proviamo a fingere di essere quel che effettivamente siamo ma non ci credono e ci fanno pagare il conto salatissimo. Un attimo dopo si avvicina un manager per chiederci se tutte queste foto che stiamo facendo le posteremo su instagram. «Ma certoooooo» rispondiamo in coro. Vabbè, il prezzo ci sta, stiamo facendo un brunch chic, spendere meno è impossibile. Ma. Il cibo fa cagare. Grande delusione. Ma come?! Tutto ’sto popò di messa in scena, ’sti prezzi e il pollo è crudo.

Lo portano via dicendo che non conoscono ancora bene la piastra e ce lo riportano ancora crudo; io gli direi che devono conoscere il pollo, non la piastra, ma mi pare un tema filosoficamente eccessivo per la situazione. Il sugo delle pappardelle sembra comprato a un 24/7 a Stoke Newington nel 1998. Indigeribile fin dal primo assaggio. Chissà che ne avrebbe pensato il signor Pavesi. E vabbè dai, almeno mangiamo seduti come cristiani. Intorno a noi una moderata eccitazione stenta a sfumare.

I pezzi grossi sono ancora lì; si discute sul come disporre le ciambelle. Una donna che è chiaramente un’addetta alla comunicazione plugga un gigantesco pc nelle comode prese (deve inginocchiarsi sotto il tavolo) e si mette al lavoro. Ci guardano tutti. Perché sì, siamo i primi clienti. Ma davvero? Sì, davvero. Eh vabbè, ma il cibo fa cagare uguale. Aridatece l’autogrill Rana o quelli emiliani indie. Almeno si mangia dignitosamente e a volte davvero l’ostessa è prosperosa.

La solitudine dell’autonauta

Ci viene la tristezza e ce ne andiamo a fare le foto da fuori, non prima di esserci assicurati che il banco dei panini tipici ci sia (c’è) e di aver assistito al patetico ed eccessivamente brusco rimbrotto di un manager alla cassiera che mi stava facendo aspettare (compravo le sigarette, ho provato a intercedere che non era un problema, ma poi no, mi sono fatto i cazzi miei).

Ed è lì, uscendo, che mi coglie il magone. È tutto fuori sync e assurdo, una stazione spaziale nella cosmopista, il rifugio indefinito degli scampati alla pandemia, uno dei pochi luoghi nei quali si può mangiare, che ha cibo. Siamo andati all’autogrill apposta per mangiare. E per farlo abbiamo infranto la legge. Mi sento storto rispetto al tempo nel quale sono. Vengo colto da una solitudine senza fine né scampo.

Inizio a vedere zombie che assaltano le pareti di vetro per mangiarsi, oltre al pollo, pure i ristoratori e infine noi, autonauti di un giorno, in un tripudio di sangue e interiora spruzzate sulla sanificatissima superficie dell’astronave, inquietante e disumana, con tutta la sua stantia e scintillante promessa di modernità desertificata. Che paura.

Saliamo in auto (ibrida) e mi accorgo che accanto a me è parcheggiata la Tesla (full electric, cazzo) probabilmente del manager che rimbrottava la cassiera. Ce ne torniamo a casa in silenzio. Penso che il prosciutto al pepe non c’era.

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