La ricchezza nelle società capitalistiche, scriveva Marx nell’incipit del Capitale, si presenta come un’immane raccolta di merci. Ed è proprio un’immane raccolta di merci quella che vediamo affollare gli spazi pubblici, i negozi, le bancarelle e i mercati di Bucarest nel primo capitolo di Bad Luck Banging or Loony Porn, film di Radu Jude vincitore dell’Orso d’oro per il miglior film alla Berlinale di quest’anno e uscito questa settimana in Italia sulla piattaforma MioCinema.

Nel primo capitolo, Strada a senso unico, vediamo la protagonista, Emi, un’insegnante sulla quarantina, attraversare le strade della capitale rumena. La macchina da presa la segue e divaga per mostrare merci, insegne, pubblicità sessualmente allusive, suv sproporzionati, persone che si contendono lo spazio sovraffollato in un’escalation di aggressività esacerbata dalla pandemia, ma anche tracce della storia che emerge negli edifici del centro e nelle parole delle comparse. In tailleur grigio e scarpe dimesse, il volto sempre coperto o incorniciato dalla mascherina portata sotto al mento, Emi si reca al mercato a comprare dei fiori per portarli a casa della sua direttrice, dove una donna anziana sta morendo.

Lo scandalo

Non è questo il motivo della sua visita però, quanto discutere con lei della riunione dei genitori che la aspetta a fine giornata, motivata da uno scandalo che l’ha travolta: i suoi studenti hanno trovato in rete un suo filmato pornografico amatoriale. Questo filmato funge proprio da prologo al film stesso: Emi indossa parrucche colorate e maschere (stavolta sugli occhi, in contrasto con quelle chirurgiche che deve indossare fuori), è a casa sua (lo scopriamo sentendo la voce di quella che supponiamo essere la madre che la chiama per dirle di mettere a letto i figli) e sta facendo sesso con quello che scopriremo poi essere suo marito. È lecito sospettare che siano state usate delle protesi per girarlo, ma il filmato è assolutamente esplicito, la nudità integrale, l’erezione in primissimo piano, con prospettiva gonzo.

È soltanto l’inizio del film, chiassoso ed eccessivo come la fantasmagoria delle merci della citazione di Marx. Ma se un tempo l’accumulo era appunto sinonimo di lusso, sfarzo, sfoggio di inesauribile disponibilità di ricchezza e potere, e la povertà poteva esprimersi anche a livello estetico come “mancanza”, è ormai immediatamente intuitivo che se pensiamo alla povertà oggi ci viene in mente piuttosto l’ammasso, caotico e soffocante, di merci disparate e di scarso valore. Come se questa immane raccolta di merci non significasse più ricchezza, bensì necessità di accumulo causato dal rischio della precarietà costantemente a un passo. Come se la povertà che sta alla base del modo di produzione si rivelasse paradossalmente proprio nella merce che questo sistema, ottusamente e compulsivamente, produce.

Una delle rappresentazioni recenti più stilizzate ed efficaci di questo paradosso si trova in Parasite, tutto giocato sul contrasto tra la villa minimalista e open space della famiglia upper-class e quella claustrofobica, stipata, dei suoi servitori. Ma altri esempi vengono dall’America, rurale o urbana ma comunque povera ed emarginata, dei reality show sugli “hoarders”, gli accumulatori seriali, opposti ai programmi in cui famiglie benestanti possono scoprire con la giapponese Mari Kondo le gioie del riordino, disfandosi di tutto ciò che non gli «dà gioia» e rendendo la propria libertà dai beni materiali il segno supremo della propria distinzione di classe.

Ha ragione allora il sottotitolo del film di Jude, che recita «appunti per un film popolare». Perché a livello estetico e semantico il film gioca precisamente con un’abbondanza bulimica, un surplus, una vera e propria accozzaglia. Vitale, rumorosa, popolare appunto, ma allo stesso tempo squallida, triste. Povera, soprattutto di senso. Nel secondo capitolo, slegato dal resto della narrazione, titolato Breve dizionario di aneddoti, sogni, meraviglie, in forma enciclopedica, Jude accosta a immagini d’archivio commenti laconici e riflessioni di pensatori come Siegfried Kracauer, Umberto Eco, Brecht e Virginia Woolf, compilando un tentativo ironico e serissimo di dare una chiave di lettura della vicenda e del contesto ingarbugliato a cui assiste. «Caragiale definì il folklore testimonianze dell’imbecillità umana», si legge sull’immagine di una cartolina kitsch che recita «la donna di casa è colei che la fa fiorire». Anche riportando episodi tremendi e imperdonabili della storia e del presente, Jude sembra volersi concentrare, più che sulla crudeltà dell’essere umano, sulla sua apparentemente irredimibile stupidità.

Il processo

La stessa che domina anche Prassi e allusioni, la terza parte del film, in cui ha luogo il “processo” all’insegnante. Nel cortile della scuola adibito ad aula, seduta in cattedra, ma in realtà al banco degli imputati, con rassegnata compostezza ma assolutamente intenzionata a non lasciarsi umiliare, Emi assiste alla proiezione su laptop del suo filmato. Ne segue un dibattito delirante che, complici anche le mascherine diligentemente indossate da tutti i presenti, ricorda le discussioni incorporee che avvengono sui social network. Le idee e le posizioni, se in alcuni casi sono ovvie, e immediatamente visibili nei ruoli e nelle divise di chi le esprime (è il caso del prete o dei militari presenti), in altri sono completamente controintuitive: tra coloro che si dicono assolutamente contrari al fatto che Emi continui a insegnare a scuola ci sono un musicista dall’estetica queer e una donna anziana che ricorda le prodezze erotiche della sua gioventù.

Emergono tutte le contraddizioni, le credenze, la violenza, i tic e l’ipocrisia della società rumena (o occidentale, in generale) in un crescendo di assurdità: Jude si diverte a infarcire di dettagli purtroppo realistici e ad aumentare l’entropia che impedisce di aggrapparsi a bussole interpretative stabili. Ma Emi è un’insegnante di storia, forse è la Storia, processata e bandita dal presente, ma tuttavia ben conscia della necessità di sforzarsi di comprendere e navigare la sua stessa oscenità, così acutamente illustrata nel secondo capitolo.

Anche per questo l’accusa di oscenità del filmato di cui è protagonista non la scompone. Molte recensioni e sinossi italiane del film sostengono distrattamente, riassumendo la trama, che il filmato sia finito “accidentalmente” online. Una svista forse legata alla prossimità con un episodio di cronaca che ha fatto giustamente indignare l’opinione pubblica nel nostro paese: il caso dell’insegnante di scuola materna licenziata a Torino per via di un filmato diffuso senza consenso dal suo partner in una chat.

Tuttavia questo inconscio parallelismo evidenzia un residuo di pruderie molto interessante. Se nel caso di cronaca la donna è stata doppiamente vittima, del licenziamento e del partner, quello che succede nel film di Jude è meno rassicurante. Perché il film non smentisce mai i sospetti che il filmato sia stato messo intenzionalmente online proprio da Emi (che infatti dice al marito di avergli addossato la responsabilità per coprirsi, e questo spiega anche perché nel girarlo indossi delle maschere). Più che finito accidentalmente online, quindi, il filmato è stato accidentalmente scoperto dagli studenti, ed è per questo che Emi mobilita il marito perché lo rimuova.

Il punto di Jude è molto chiaro: se anche Emi avesse davvero, come insinuano i genitori, una doppia vita come attrice porno online, questo non inficerebbe affatto il suo lavoro di insegnante. L’obiettivo polemico non è soltanto la violenza maschile, tantomeno una generica tecnologia, demonizzata perché ruba spazio all’intimità e all’autodeterminazione sulla propria immagine. Jude stesso filma nella prima parte una quantità di passanti che guardano in macchina: nessun rispetto sacrale per la proprietà privata, men che meno quella della propria immagine. Ciò che Jude punta a criticare, ridicolizzandola, è la drammatica incapacità dell’umanità di essere all’altezza della tecnologia che pure produce e venera. E che per colpa di questo “dislivello prometeico”, come avrebbe detto Gunther Anders, continua velleitariamente ad aggrapparsi a ideali violenti come la religione, la nazione, il pudore, tutte quelle istituzioni e quei “sani valori”, insomma, che creano uno spazio protetto grazie alla sacralità della proprietà, delimitando un dentro e un fuori.

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