«L’eccesso di salute genera i virus e la virulenza. L’eccesso di sicurezza produce una minaccia nuova, quella del collasso immunitario. L’eccesso di capitali genera la speculazione e il crac. L’eccesso di informazione genera l’indecidibilità dei fatti e la confusione delle menti. L’eccesso di ragione genera l’ingiustificabile. L’eccesso di trasparenza genera il terrore». Jean Baudrillard amava le formule oracolari, spesso enigmatiche, talvolta incomprensibili. Quando va male i suoi libri suonano come dei film di fantascienza – hai mai zigoviaggiato? – ma quando va bene contengono intuizioni come questa, tratta da Il Patto di lucidità o l'intelligenza del Male (1994), che attraversano le epoche e sembrano parlarci con esattezza del presente: in poche frasi è riassunto tutto quello che è accaduto nell’ultimo anno alla nostra società sovra-medicalizzata, sovra-informata e sovra-protetta. Salvo poi aggiungere: «Collasso gravitazionale di ogni sistema, di ogni processo, di ogni corpo in movimento, la cui accelerazione crea di ritorno un’onda d’urto, una forza antagonista non soltanto pari ma superiore, che ne costituisce il limite assoluto, l’orizzonte negativo, al di là del quale si annulla da sé». Come scusi?

Quando logici e scienziati vogliono denunciare le presunte “imposture intellettuali” dei filosofi, è Baudrillard che citano: i suoi giochi di parole, le sue metafore tratte di peso dalle scienze dure, il suo gusto per il paradosso. Quando i sociologi devono rivendicare la scientificità della loro disciplina, è da approcci come quello di Baudrillard che prendono le distanze: dove sono i dati, i numeri, le metodologie? Quanto agli intellettuali impegnati, giudicano con sospetto il suo pessimismo e le sue provocazioni, il suo percorso dell’ultrasinistra alla critica radicale della sinistra. Lui, satrapo del Collegio Superiore di Patafisica, si difendeva vantando le virtù dell’ironia e la natura letteraria delle sue speculazioni: «La teoria è tanto più bella quanto assume la forma di una finzione o di una favola».

Logica ludica e sistema di segni

Nella sua biografia appena uscita per Bollati Boringhieri, Quel che resta di Baudrillard, Serge Latouche lo definisce patafilosofo, distinguendo tuttavia con attenzione tra due Baudrillard: il metodico studioso della società dei consumi e il visionario profeta della virtualizzazione del mondo. Il primo autore-simbolo del Sessantotto e il secondo avatar dell’estetica anni Ottanta/Novanta, padre nobile del cyberpunk giù fino a Matrix. Oltre a essere – Latouche lo sostiene da anni – un precursore (riluttante) dell’ecologia politica. Tutto sommato la categoria più adatta per capire l’opera di Baudrillard lungo quarant’anni è quella di gioco. La scrittura è un gioco proprio come ogni altro aspetto della vita sociale. Lo sviluppo dei social media non farà altro che portare all’estremo questa logica ludica, come in tempi recenti ha sostenuto Alessandro Baricco attraverso la metafora del “Game”: un'interfaccia virtuale ha sostituito il mondo e un filosofo francese lo aveva previsto mezzo secolo fa.

Come si arriva da Baudrillard a Baricco, Latouche e Matrix? Andiamo con ordine. Nel suo primo libro, Il sistema degli oggetti (1968), il francese trattava i beni di consumo come un sistema di segni, un vero e proprio linguaggio. Arredare un appartamento con determinati mobili, illuminarlo in un certo modo, preferire il vetro al legno o il moderno all’antico, significa formulare un discorso. Da questo punto di vista non conta la funzione primaria degli oggetti ovvero la loro utilità, ma il loro essere «Elementi di gioco, di combinatoria, di calcolo all’interno di un sistema universale di segni».

Con questo libro, che a prima vista non è altro che un inventario delle abitudini di consumo degli anni del boom economico, Baudrillard intendeva contribuire al progetto del suo maestro Roland Barthes, la semiologia come «Scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale». L’allievo mette in cantiere una «economia politica del segno» con l’idea di superare il concetto classico di valore d'uso, ovvero l’idea che sia la funzione a determinare il valore economico di un oggetto, per approdare all’idea tipicamente strutturalista secondo la quale il valore di ogni singolo elemento linguistico è determinato non dal riferimento a una cosa in sé (lontana, inconoscibile, forse inesistente) bensì dal suo rapporto con la totalità degli altri elementi linguistici.

Il consumo apre così l'accesso a un mondo nuovo e del tutto autonomo, una semiosfera nel quale gli uomini di quegli anni iniziano a migrare in massa – per ritrovarsi oggi a vivere effettivamente gran parte della vita attraverso la mediazione di schermi e icone. Con questa intuizione Baudrillard inizia a tagliare i ponti con il reale, come un palloncino pieno di elio che inizia un lungo viaggio sempre più lontano dalla terra.

La società dei consumi

Contaminando la sociologia con la linguistica e con l’antropologia, Baudrillard finisce per realizzare che la distinzione tra il necessario e il superfluo non è naturale, ma che anzi il consumo simbolico precede la soddisfazione dei bisogni materiali. Negli anni successivi la ricerca assume una chiara dimensione politica, prima di abbandonarla nuovamente. L’editore Gallimard gli commissiona un testo che diventerà La società dei consumi (1970), classico ancora ineguagliato in grado di presentare in modo chiarissimo – per una volta – sia il pensiero dell’autore che lo stato dell’arte della riflessione sociologica sul tema. Un libro che mezzo secolo dopo la sua pubblicazione non ha perso nulla della sua radicalità.

Quella che Baudrillard descrive è una vera e propria religione, un cargo cult: la società consuma i segni del benessere nella speranza che il benessere segua. Ci si illude di disporre di un diritto naturale all’abbondanza e si nascondono in ogni modo gli effetti collaterali dello sviluppo industriale; si finisce per consumare il mondo a furia di inseguire la contraddizione fondamentale di un sistema che «produce nello stesso tempo dei beni e dei bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo». È comprensibile che Latouche, assieme a molti altri, abbia visto nell’opera di Baudrillard i semi di quella che poi sarebbe stata la Decrescita, intesa come critica radicale del pensiero economico. Ma intanto Baudrillard ha già superato il primo cielo, e privo della zavorra di una qualsivoglia pars construens fluttua lontano dalle preoccupazioni terrene.

La società dei consumi è un libro inesauribile, che a ogni pagina offre uno spunto, una previsione, un calcio nelle palle ai luoghi comuni. Baudrillard analizza la «produzione industriale delle differenze» ovvero il modo in cui il mercato promette a ognuno la scoperta della propria vera personalità: «Il corpo del quale state sognando, è il vostro» promette una pubblicità di reggiseni. Contrariamente alla vulgata del suo tempo, il filosofo afferma che è nel consumo, e non più solo nella produzione, che viene fabbricato l’uomo alienato. Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i segni.

Vista questa professione di anti-materialismo il suo addio ufficiale al marxismo non poteva tardare, e infatti avviene nel 1973 con Lo specchio della produzione: in questo libro capitalismo e comunismo appaiono come due facce della stessa medaglia produttivista, ossessionati come sono dal valore d’uso; non esiste nessuna classe rivoluzionaria e nessun destino storico, soltanto delle contraddizioni di ordine simbolico. Baudrillard radicalizza le tesi già radicali che da oltre un decennio l’economista Cornelius Castoriadis, dissimulato sotto vari pseudonimi, promuoveva nella rivista Socialisme ou Barbarie, e che nel 1970 aveva consegnato in un rapporto ufficiale dell’Ocse, The Growth of Output 1960-1980. Ma è con Lo scambio simbolico e la morte, nel 1976, che Baudrillard chiude il suo sistema, individuando come male del nostro tempo l’incapacità di accettare la possibilità della morte, unico referente reale opposto al gioco autoreferenziale dei segni. Ogni tentativo di rimandare la morte, attraverso il «ricatto della sicurezza», istituisce un rapporto di potere.

Il Nuovo Mondo

Qui si situa la cesura tra il primo e il secondo Baudrillard, sebbene Vanni Codeluppi nel suo illuminante Jean Baudrillard. La seduzione del simbolico inviti opportunamente a non considerarla con troppa rigidità. I successivi trent’anni di produzione baudrillardiana, segnati da questa radicalizzazione parossistica, costituiscono un caso più unico che raro di opera postuma sebbene scritta in vita: l’autore abbandona definitivamente il reale e chiude la stagione dell’impegno politico, proprio mentre accede al successo internazionale e abbandona l’università. Con gli Stati Uniti inizia una storia d’amore splendidamente corrisposta: se artisti newyorkesi e critici letterari lo citano a ogni piè sospinto, spesso a sproposito, lui si appassiona ai paesaggi, ai deserti e alle città americane, nei quali sembrano incarnarsi le sue teorie. Ne trarrà un libricino affascinante chiamato semplicemente America (1995), dove descrive il Nuovo Mondo come un’utopia realizzata, ovvero una società che «Viene istituita con l’idea di realizzare tutto ciò che le altre società hanno sognato». Punto geografico in cui la finzione tocca la realtà materializzando i sogni e concretizzando gli ideali.

Non soltanto la sua industria culturale plasma i nostri comportamenti e le nostre visioni politiche, ma inoltre le finzioni venute d’America sembrano avere la curiosa propensione a realizzarsi in maniera più pervasiva di ogni altra – come se in quel nuovo continente fossero venuti a mancare i dispositivi che tengono sotto controllo il contagio della finzione. Qui è nata Internet (mondo virtuale più vero del vero, quindi iper-reale) e solo qui, d’altronde, poteva accadere che le fantasmagoriche teorizzazioni di Baudrillard ispirassero uno dei più grandi successi della fantascienza degli ultimi vent’anni, quel Matrix che si apre con una scena in cui il protagonista Neo prende in mano una copia di Simulacri e simulazioni (1981), il più celebre dei libri illeggibili di Baudrillard, nel quale sviluppa l’idea del simulacro come puro segno senza referente, copia del quale non esiste nessun originale.

Non è un caso che nel film la copia di quel libro sia cava, usata da Neo soltanto per nascondere soldi e dischi. Quante copie cave dei libri di Baudrillard se ne stanno, quiete, nelle librerie di tutto il mondo, perché il suo nome continui a essere tanto ripetuto e le sue idee tanto dimenticate? Il contenuto dei suoi primi libri è così ricco che non si può biasimarlo per aver scelto di viverne di rendita per il resto della vita, dando per scontate certe elaborazioni teoriche e tirandone le fila in forma frammentaria, ripetitiva, enigmatica, spesso fin troppo auto-indulgente.

Non si può biasimare Baudrillard, perché la sua economia politica del segno permette ancora d’illuminare fenomeni diversi come il terrorismo, il Game dei social network o la speculazione finanziaria, intesa come gioco di segni il cui referente, l’economia reale, sembra allontanarsi sempre di più. Persino le crisi sanitarie, che come ogni evento estremo non devono essere considerate come eccezioni ma anzi come manifestazioni catastrofiche della logica stessa del codice che governa l’iperrealtà nella quale viviamo.

Non si può biasimare Baudrillard per essere stato Baudrillard fino all'ultimo, replicando tutti gli elementi del suo sistema filosofico come metastasi, per usare una metafora a lui cara, fino alla compiuta ridondanza. Ma la strategia fatale con la quale ha pianificato la propria progressiva cancellazione dal canone rischia oggi di occultare un’opera intera, che come scrive Latouche si presenta oggi come un’eredità senza eredi.

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