Siamo nel 1946, al concerto a palazzo Ducale che segna la ripresa della vita musicale a Bolzano dopo la fine della guerra. Star della serata: Arturo Benedetti Michelangeli, che a ventisei anni era la stella nascente, a livello mondiale, del pianoforte. Due cattedre di conservatorio, Bologna e Venezia, già conseguite «per chiara fama», e il titolo di «nuovo Liszt» elargito dal direttore del Concours International d’Exécution Musicale di Ginevra, Alfred Cortot.

Luci accese, pubblico in sala che comincia a dare segni di impazienza. Ma di Benedetti Michelangeli non c’è traccia. Si chiede a Giannino Carpi, grande amico di Michelangeli, di andarlo a cercare. Carpi lo trova nella sua stanza all’hotel Grifone, sdraiato sul letto, frac, scarpe lucide, ha in mano un volume di Jacopone da Todi. «Ho letto questo. Stasera non posso, non posso suonare». «Va bene, però la sala è strapiena, Ciro. Vieni e al pubblico dillo tu» (Michelangeli viene chiamato “Ciro” dagli intimi, perché da bambino assomigliava a “Cirillino”, personaggio del Corriere dei Piccoli).

«Va bene, vengo». Sala strapiena, rumore. Nel backstage Michelangeli si rivolge ancora a Carpi: «Vedi, Giannino, ho questa pellicina sul dito che mi dà fastidio. Anche volendo non potrei suonare. Per favore, Giannino, vai a casa a prendermi quelle tue forbicine, solo con quelle posso». Carpi corre verso casa. Mentre esce dal palazzo sente un grande applauso. Michelangeli ha attaccato. Il concerto sarà un trionfo. 

L’episodio, leggendario e del tutto vero, è ricordato dalla figlia di Carpi, Vera, nel documentario La montagna di Ciro, di Andrea Andreotti, uscito il mese scorso e attualmente in concorso in diversi festival. Una delle tante iniziative per celebrare i cento anni dalla nascita e i venticinque della scomparsa di Abm, che cadono quest’anno. Tre l’altro si ricorda l’uscita del libro di Roberto Cotroneo, Il demone della perfezione - Arturo Benedetti Michelangeli.

Le sparizioni 

L’aneddotica michelangeliana è affollata di casi del genere: ritrosia, concerti annullati con relative penali salatissime; silenzi, sparizioni, risposte evasive nelle interviste. Per i committenti, un concerto di Michelangeli era sempre in una certa misura una scommessa. Il giorno della sua morte, il 13 giugno 1995, il New York Times titola «Reclusive pianist dead at 75».

Abm che manda a monte una registrazione televisiva di musiche di Debussy perché ha una palpebra irritata. Abm che annulla una serie di concerti londinesi, comprando a sue spese pagine sui quotidiani britannici per annunciarlo, solo perché aveva scoperto che i suoi concerti erano stati inclusi in un pacchetto turistico per italiani.

Erano gli anni in cui aveva dichiarato guerra all’Italia dopo che, per il fallimento della casa discografica di cui era socio, il fisco gli aveva sequestrato i pianoforti di casa. Abm che annulla un concerto a Brescia perché la sua Lamborghini gialla aveva preso una multa per divieto di sosta, ma poi torna quando si accorge che la multa gli era stata ritirata (in realtà era stata pagata di nascosto da Agostino Orizio, fondatore del Festival pianistico internazionale di Brescia e Bergamo).

Abm che fa saltare l’accordo per una registrazione con Carlos Kleiber: durante le prove non parla col direttore d’orchestra, fa cenni direttamente agli orchestrali. Kleiber del resto lo teme, perché Abm gli ricorda il padre. Abm che non realizza la registrazione con Herbert Von Karajan e fa saltare il «colpo del secolo» alla Deutsche Grammophon. Abm che fa licenziare Cord Garben, il suo produttore presso la casa discografica tedesca, perché durante un concerto lo ritiene responsabile (a torto) di aver sbagliato il puntamento dei riflettori, abbagliandolo. 

Abm sadico con gli accordatori di pianoforte. Il suo collaboratore storico Angelo Fabbrini ha raccontato in un’intervista: «Ero a casa di Michelangeli a Lugano. Ormai ero stanco, erano le otto di sera e dissi al maestro che sarei andato a dormire. Ma lui mi rispose: “Angelo, no, continua”. Il suo comportamento mi sembrò strano ma, in silenzio, ricominciai il lavoro da capo. Dopo un po’ capii che mi stava facendo un esame e chiesi il motivo. E Michelangeli mi rispose: “Angelo, è vero che tu prepari i miei pianoforti da tanti anni e ci conosciamo bene. Ma se nel frattempo fossi impazzito?”».

Dopo i litigi più feroci sull’accordatura e l’azione del pianoforte Fabbrini, ridotto all’esasperazione, diceva «me ne vado». Allora Michelangeli sedeva al piano, suonava un pezzo – Fabbrini non sa quale fosse – e lo bloccava sulla porta.

Sarebbe facile liquidare questa serie di fatti come semplice mania di grandezza, narcisismo, ipertrofia dell’io, del resto normale tra le popstar anche della musica classica. Gli altri giganti del pianoforte del Novecento spesso non sono stati teneri con Benedetti Michelangeli.

Sviatoslav Richter lo considerava «glaciale», Claudio Arrau non lo nominava mai, ma in una lettera sosteneva con varie perifrasi che non gli diceva nulla. Arthur Rubinstein lo bocciò a un concorso. Con Vladimir Horowitz era evitamento, reciproco, come con Glenn Gould. Gli stessi Maurizio Pollini e Martha Argerich, entrambi suoi allievi, non parlano volentieri, nel dettaglio, del rapporto con Benedetti Michelangeli. 

«Non so niente di me»

Si potrebbe addirittura raccontare che il primo a non occuparsi di Benedetti Michelangeli fosse Benedetti Michelangeli. In un’intervista a una tv francese alla domanda «come si definirebbe» rispose: «Non so niente di me». Un’altra volta, interrogato sull’evoluzione del suo repertorio rispose: «Non so, non ho memoria». Per testamento è stato seppellito nel cimitero di Pura, nell’entroterra luganese, il villaggio che era diventato il suo ultimo rifugio, in una tomba senza lapide. 

Ma è molto strano che chiunque l’abbia conosciuto e abbia avuto un rapporto durevole con lui ne parli con enorme affetto, e con un’intenzionalità «protettiva». «Ha lasciato in giro una quantità di vedove», ha detto una volta Pier Carlo Orizio, figlio di Agostino e attuale direttore del festival pianistico di Brescia e Bergamo.

Nel documentario di Andreotti è chiaro come a tutti i testimoni “Ciro”, “Cirillino”, evocasse uno spirito di accudimento, protezione, come se fosse sempre rimasto un bambino. Una sua compagna di lezioni di piano ricorda come Michelangeli, da piccolo, si presentasse a casa sua per fare gli esercizi, si chiudesse nella stanza da solo e, finito lo studio, stesse in silenzio mezz’ore intere. Andarono a curiosare. Lo trovarono alla finestra. Guardava fuori, zitto. 

Di Benedetti Michelangeli resta innanzitutto l’aspetto meno concettuale della musica, quello che Theodor W. Adorno avrebbe apprezzato meno: il timbro. Alberto Savinio ha scritto di lui: «Apparentemente Michelangeli suona il pianoforte; sostanzialmente egli suona più strumenti in uno, particolarmente l’organo nei registri acuti, la celesta e anche il flauto».

La capacità di far emettere al pianoforte suoni che, per sua costituzione non potrebbe o dovrebbe emettere, è davvero “trascendentale”. La prima ossessione di Abm è sempre stata il suono. Suono, diceva il critico Piero Rattalino, che percepiva solo lui. Chi era a venti metri di distanza non poteva accorgersi di certi particolari.

Gli affreschi si guardano da lontano, ma lui era concentrato nella sua mania per il particolare; e contrariamente a quello che dicono in molti ha avuto una sua evoluzione: all’inizio c’erano i rubati tardoromantici, poi si è spostato verso una misura di asciuttezza e rigore filologici, e infine ha ripreso certi elementi di stile decadentistici.

Nell’ultima fase della sua vita ha detto in più di un’occasione: «Voglio rifare tutto», voleva ri-incidere tutto quello che aveva già inciso. Il risultato è che il pianismo dell’ultimo Abm annuncia un postmoderno interpretativo.

È un pianista che ha dato il meglio ovunque ci fossero giochi di suono, dal romanticismo all’impressionismo, Debussy, Chopin, Ravel, Schumann, Brahms, Rachmaninov, ma sorprende, pure il non intenditore, su Bach e Scarlatti. 

E sorprese quando decise di armonizzare i canti tradizionali del coro della Società Alpinisti Tridentini (parte che il documentario di Andreotti racconta magnificamente), trasformando ninne-nanne e canti di trincea in complesse architetture contrappuntistiche, piene di colpi di luce timbrici e armonici.

La mania della velocità

Il lato biografico è prevalentemente una storia di inseguimenti e sparizioni. La mania per le Ferrari e per la guida veloce con cui terrorizzò, tra gli altri, Salvatore Accardo, sulla strada da Moncalieri a Torino. Folle, allievi, donne che lo inseguivano mentre Michelangeli inseguiva il suo ideale ascetico. Anche con l’insegnamento. Sin dalla fine degli anni Quaranta, prima nei conservatori, poi in master class con allievi selezionatissimi e provenienti da tutto il mondo, in Toscana, in Piemonte, a Bolzano, in Svizzera, Benedetti Michelangeli ha sempre insegnato, convinto com’era che trasmettere qualcosa fosse un dovere di chi ha avuto un talento. 

Il resto per lui non era una cosa seria. Nonostante l’immagine compassata, in certi casi raggelante, nella figura del pianista bresciano ci sono molti aspetti tipici del “suonatore ambulante”, vale a dire del joculator, del trickster, del fool. Michelangeli si divertiva molto a raccontare bugie. «Era un gran ballista», ricorda nel documentario Vera Carpi. Gli piaceva dichiarare di aver studiato medicina, sosteneva di essere discendente diretto di Jacopone da Todi.

E il necrologio del New York Times raccontava di una sua triplice partecipazione alla Mille Miglia e di una sua attività di pilota di aereo. Tutto falso. Come il fatto di essere stato percosso sulle mani con tubi di gomma dai tedeschi, durante la guerra. Arturo Benedetti Michelangeli, come ogni asceta, aveva solo preso in parola una massima dei padri del deserto: «Bisogna fuggire sempre, tacere sempre, e in molti casi fare il matto». 

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