L’oggetto di questi racconti sono i libri. Quattro azioni molto diverse che si possono fare con i libri, azioni che talvolta escludono le altre: non è detto, infatti, che chi è animato dalla smania di possedere libri sia un accanito lettore, come spesso non succede il contrario, e di rado i grandi lettori sono anche bibliofili. Allo stesso modo vendere libri potrebbe tranquillamente non contemplare il fatto di leggerli, così come il desiderare di averne. Infine, bruciare libri, l’azione più estrema e delittuosa, potrebbe essere non soltanto l’oltraggio di chi teme la parola scritta, di chi l’ha in sospetto e la odia quando diffonde idee che avversa, ma anche l’atto supremo di un amore tanto esclusivo e assoluto da diventare perverso, omicida o forse liberatorio.

I libri di mio padre ripercorre, tra tenerezza e strazio, l’eredità di un bibliofilo. Lettore di dattiloscritti e Le età dell’oro dell’editoria italiana raccolgono le riflessioni di chi ha dedicato la vita a una specie particolare di lettura, quella rivolta a testi destinati, nella maggior parte dei casi, a non veder mai la luce, a entrare nel limbo infinito delle opere non pubblicate: perché frutto di un narcisismo sterile, di ambizioni sbagliate, o di un talento non riconosciuto?

Memorie di un venditore di libri apre la finestra, quasi sempre lasciata chiusa, su coloro che i libri li vendevano, e ancora li vendono, in un’Italia diversa e lontana, ma non così diversa e non così lontana. Bruciare, infine, è forse l’approdo fatale di chi, come chiunque abbia dedicato la vita a una passione esclusiva, all’improvviso si accorge che è tutto niente?.

Sensibilità nuova

Il tema di una sensibilità nuova, in sintonia col proprio tempo e in conflittualità col passato, è però sempre complesso e ambiguo. L’essere umano è contraddittorio, e come mi è capitato di vedere alcuni giovani letterati di rigorosa tradizione accademica entrare in editoria e subito convertirsi alle ragioni del mercato con una spregiudicatezza e un cinismo che non avevano neppure certi direttori commerciali cresciuti facendo i commessi nelle librerie di scolastica, così mi dovevo accorgere che le vecchie generazioni mostravano una vitalità feroce che i miei coetanei erano lontani dal possedere, perché non solo apparivano assai più esangui ma anche perché, per quanto potessero essere altrettanto smaniosi di successo, sembravano affetti da un fighettismo snervato e privo di grandezza.

Nel 1993 Domenico Rea vinse lo Strega con Ninfa plebea, pubblicato da Leonardo. Fu una storia strana: Leonardo Mondadori, uscito dalla casa editrice del nonno Arnoldo per andare a fondare il proprio marchio, vi rientrò qualche anno dopo, quando Berlusconi si aggiudicò la “guerra di Segrate” contro De Benedetti.

Una delle conseguenze editoriali del ricongiungimento fu che Mondadori decise di appoggiare, per l’edizione di quell’anno dello Strega, il libro di “don Mimì” Rea, pubblicato dalla Leonardo sotto la direzione di Francesco Durante. A me, che ero il funzionario preposto a seguire lo Strega, toccò di accompagnare don Mimì al premio. Senonché, pubblicata da Mondadori, allo stesso premio ambiva Ombres.

Rossana Ombres era la versione in carne, ossa e capelli di Maga Magò. Scarmigliata, anziana e incerta nella deambulazione, me la dovevo trascinare per via Veneto attaccata al braccio, ma ogni tanto si piantava e aggrappandosi mi rivolgeva accorate richieste che erano poi sempre le stesse, quelle di prammatica: recensioni, pubblicità, una migliore esposizione nelle librerie, ma considerate dall’esterno, nel flusso della gente che passava, potevano essere facilmente equivocate. Vedevo ogni tanto qualcuno rallentare davanti alla strana coppia che formavamo e fissarmi con disapprovazione.

Lasciai dunque Ombres al suo destino, ma lei, che si era presentata al premio contro la sua stessa casa editrice, donna sola e abbandonata da un colosso editoriale senz’anima e senza delicatezza, privata delle sue giuste ambizioni per ragioni di merging aziendale, raccolse molti consensi.

Chiamando a raccolta gli indignati, i difensori degli oppressi e i nemici di Mondadori – che, come disse una volta Niccolò Ammaniti con un’immagine molto ammanitesca, di gente che la odia ne ha tanta perché agli occhi di molti incarna il ciccione cattivo che a capo dei bulli t’insegue fuori dalla scuola –, seppe orchestrare un’ottima campagna di solidarietà e alla votazione iniziale entrò in cinquina passando addirittura come prima.

La telefonata

Allora essere in cima alla cinquina poteva rappresentare una soddisfazione personale ma all’atto pratico non significava niente, perché poi all’ultima votazione il risultato si ribaltava e spesso il favorito passava la prima fase come terzo o addirittura come quarto.

Non tutti però lo sapevano. Anzi, lo sapevano solo gli addetti ai lavori. Chiamai don Mimì per dirgli che la votazione era andata bene e che eravamo entrati in cinquina da secondi. «Comme? Sicond’? E chi è primm’?» «La Ombres.» «Ombres? E chi cazz’è ’sta Ombres?» Spiegai come funzionava il premio e chi era Ombres. E pensai che fosse finita così.

Vinto il premio a luglio del 1993, Rea morì a gennaio del 1994. Pochi mesi dopo, a settembre, incontrai Ombres a Venezia al ricevimento che Leonardo Mondadori organizzava ogni anno prima del Campiello. Sulla lancia che ci portava a Torcello esordì sospirando: «Povero Rea, non se l’è goduto mica tanto il premio...». Poi aggiunse che, subito dopo la cinquina, don Mimì l’aveva chiamata: «Ombres!» le avrebbe detto. «Si te liev’ ’a miezo, sono disposto a venire là... a chiavarti!». «Rea!», avrebbe risposto lei. «Tu hai settant’anni e non sei Sgarbi. Se ti levi di mezzo tu, vengo a chiavarti io!».

Doveva essere successo – se davvero era successo, ma perché non poteva essere successo? – subito dopo la mia telefonata. Mentre riflettevo sulla ineguagliabile potenza di quello scambio, vero o inventato che fosse, espressione comunque di un’Italia arcaica e brutale, bastonata dalla guerra ma vitalisticamente proiettata nella ricostruzione, eravamo arrivati e, solidamente artigliato il mio braccio secondo tradizione, Ombres incedette sul tappeto che conduceva al ricevimento in giardino, incollata al suo imbarazzato cavaliere.

«Ciao Pivano!» l’apostrofò la voce di Busi, circondato da un capannello di ammiratori. «Ma Aldo, non sono la Pivano! Sono la Ombres!», «Ombres? Ma non eri morta?». Si sentì qualche riso soffocato, Ombres non fece una piega.

Ogni tanto, durante il pranzo, Busi la invocava: «Ombres! Sto scrivendo un libro intitolato Cazzi e canguri! Tu non potresti mai scrivere un libro intitolato Cazzi e canguri!». Oppure: «Ombres! Che cosa fai nel pomeriggio? Dai, vieni con noi che andiamo a vedere la mostra di Mapplethorpe, che ci sono dei cazzi grossi così, che ti bagni tutta!».

Il pranzo passò tra questi lazzi, Ombres fremeva come un giunco squassato dai venti, ma rimuginava. Dopo il caffè, passò all’attacco: «Busi!», lo apostrofò stentorea. «Se tu scriverai Cazzi e canguri, io scriverò Fiche e dobermann!», e, senza incespicare ma sempre traballando, perché a questo punto mi ero vilmente sottratto al mio ruolo di accompagnatore per sedermi al tavolo dei suoi tormentatori, andò a mettersi in coda alla fila che aspettava la lancia per il ritorno.

Una materia labile

Immaginai nei ruoli di Mimì Rea e Ombres differenti, possibili coppie di scrittori e scrittrici miei coetanei, ma no, non ce li vedevo. Non ce li vedevo proprio... Forse una volta, nell’età dell’oro dell’editoria italiana, la partita si giocava più chiaramente tra il comprendere e il non comprendere l’arte del proprio tempo. I libri che si pubblicavano erano effettivamente molti di meno, le proposte che arrivavano erano infinitamente meno, venivano quasi certamente sottoposte a un vaglio più accurato – spesso si facevano due letture, talvolta persino tre –, e acquisizioni e rifiuti apparivano più motivati.

Scrivo “forse” perché ho il sospetto che già allora comunque ci si lamentasse che si pubblicava troppo e che «tutti scrivono e nessuno legge», frasi che sento ripetere da quarant’anni. La storia dell’editoria è una materia labile, perché certo lascia tracce scritte, ma le questioni più complesse di solito vengono risolte a voce e tracce non ne lasciano, o se lo fanno si leggono in resoconti inaffidabili perché tale è la memoria degli uomini.

In questi ultimi decenni, dei quali posso dire per esperienza diretta, è certo che le proposte sono molto aumentate. E sì, ho la sensazione che la scrematura sia più difficile rispetto al passato e che, se forse serve una maggiore acutezza per riconoscere l’opera giusta da pubblicare, sicuramente occorre una maggior fortuna.

Però mi è capitato che alcuni di coloro che denunciano come si pubblichi troppo siano anche quelli dai quali ho ricevuto, tra le opere loro e quelle di amici, discepoli e conoscenti, il maggior numero di proposte. E talvolta sono gli stessi che, quando si tratta dell’altro tema sensibile, quello della qualità, fanno più o meno direttamente capire che di fatto la identificano con la propria opera. Poco male.

Buoni e cattivi scrittori si riconoscono dal valore dei loro lavori piuttosto che dall’attendibilità delle loro dichiarazioni. Certo, sono dettagli che contribuiscono ad accentuare il cinismo degli editori e a togliere valore, ai loro occhi, a molti dei dibattiti che alimentano il fuoco di paglia delle polemiche letterarie. Queste però sono solo alcune delle cause che hanno prodotto, assieme ad altre più generali, il vero e proprio cambiamento climatico che si registra anche nel mondo editoriale e provoca effetti assai significativi che oggi ricadono sulla percezione della letteratura e perfino sul suo statuto profondo.

Memoria collettiva

Quando voglio spiegare questo fenomeno con un esempio pratico cito, da un po’ di tempo, il caso del Deserto dei Tartari di Buzzati, ma ne potrei prendere molti altri. Il deserto dei Tartari esce per la prima volta nel 1940 da Rizzoli. Viene ripubblicato nel 1945 da Mondadori in due collane diverse: La Medusa degli italiani e Lo specchio. I narratori del nostro tempo. Nel 1952 esce ancora nella Medusa e nel 1956 nei Narratori italiani, una collana diretta da Niccolò Gallo. Nel 1969, quando gli Oscar esistono ormai da quattro anni – e Il deserto dei Tartari vi compare come quarantottesimo titolo della serie, nel 1966 –, il libro di Buzzati esce ancora, in edizione rilegata, nella collana Scrittori italiani e stranieri.

Che cosa significa tutto questo? Che ancora nel 1969, a ben ventinove anni dalla prima pubblicazione, Il deserto dei Tartari continua a essere stampato, venduto e percepito come una novità, un libro attuale, contemporaneo. E tale appare ancora a me e ai miei coetanei quando lo leggiamo, da ragazzi, all’inizio degli anni Settanta.

Nel pieno di quel decennio, romanzi come Conversazione in Sicilia (1941), Cristo si è fermato a Eboli (1945), Ragazzi di vita (1955), Il barone rampante (1957), Il Gattopardo (1958), La ragazza di Bube (1960), Il giardino dei Finzi-Contini (1962) e tanti altri sono tutti considerati dalla massa dei lettori chiari esempi di ciò che in letteratura è moderno.

Molte opere uscite dal dopoguerra all’inizio degli anni Sessanta hanno tutto il tempo di farsi assorbire, di entrare nelle fibre profonde della società come una pioggia autunnale lenta e nutriente che imbeve il terreno poco alla volta. I politici, anche quando non li hanno letti, conoscono gli scrittori, sanno di che cosa parlano i loro libri. I giornalisti citano autori e opere nei propri articoli, li discutono. Nella scuola, dove il fronte della modernità è ancora rappresentato da D’Annunzio, Pascoli e Pirandello, gli insegnanti più giovani e anticonformisti li propongono per le letture estive ammantandoli di un’aura quasi di trasgressione. Eppure, spesso sono opere uscite trent’anni prima.

Come esempio di ciò che succede oggi prendo Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, e anche qui di casi simili ne potrei citare tanti. Vincitore dello Strega nel 2010, grande romanzo corale ed epico, storia di un esodo e di fondazioni. Se fosse uscito negli anni Cinquanta sarebbe stato una di quelle opere fatte apposta per entrare nell’immaginario di una nazione e restarvi per decenni. Invece, pubblicato nel 2010, vince premi, riceve riconoscimenti, vende benissimo, ma non penetra negli strati profondi della memoria collettiva.

In termini di copie i successi di oggi, anche quei pochi che rientrano in un ambito più letterario, non vendono meno di una volta, ma toccano in un tempo molto più breve quel numero di copie che prima per essere raggiunte richiedevano anni. I successi di oggi sono tempeste tropicali che allagano il terreno, lo sbancano e non lo fertilizzano. Sono incendi allargati dal vento. Dopo la morte di uno scrittore allora cominciava il processo di canonizzazione, oggi comincia l’oblio.

Deliri da burattinaio

Adesso che il vecchio sono io, ora che ho un’età simile, o maggiore, di quella di coloro che furono i miei maestri, sperimento dall’altra parte gli stessi meccanismi che vedevo dal fronte della giovinezza: chiedo ai nuovi editor di parlarmi dei nuovi scrittori che io appena conosco di nome e dei quali loro sanno tutto perché li hanno letti e vanno a prenderci l’aperitivo, ricevo le telefonate e le mail di coetanei con cui sono sempre rimasto in contatto o dei quali non sapevo più niente da decenni e davvero sembrano provenire dal pozzo profondo del passato, talvolta prendo decisioni motivate da una sorta d’inerzia sentimentale oppure m’incuriosisco per qualcosa di nuovo, mentre altre manifestazioni dello spirito del tempo mi appaiono del tutto incomprensibili; leggo pagine che magari non mi entusiasmano ma che riconosco come un cibo dell’infanzia, mentre i miei colleghi giovani le sputano come se vi fossero allergici.

A volte addirittura ricevo lezioni di realismo amaro, come quando Giulia Ichino, che lavora con me da molti anni e ha cominciato che davvero era una ragazza incline all’entusiasmo – qualità oggi assai più necessaria e richiesta del grave distacco dei nostri, più autorevoli, predecessori –, mi ha detto: «Nel nostro lavoro facciamo la felicità di un autore a prezzo dell’infelicità di venti, ma anche quell’uno, a vedere bene, non è poi così felice...».

Certo, facciamo la felicità nostra, qualche volta, una felicità strana, segreta, non quella del creatore, caratterizzata da esaltazione e disperazione, ma quella di chi ha contribuito a che un’opera arrivi alla gente, poca o tanta che sia, e ne vede, ne comprende tutto il miracolo. Lo possiamo definire un «delirio da burattinaio» se vogliamo sottolineare gli aspetti più strategici e attribuirci un’identità pigmalionica – e un poco sinistra, per quanto mi riguarda –, oppure potremmo parlare di un «fremito della cinghia di trasmissione», se pratichiamo l’understatement, ma il talento dell’editore di far incontrare gli autori con il loro pubblico, il gusto di fare da tramite, è un piacere che una volta assaporato non si dimentica. Non riesce sempre, forse solo in una minoranza di casi, ma dà l’ebbrezza e l’assuefazione necessarie per volerci provare ancora e ancora.

Dopo il 2010, quando cominciò la recessione, apprendemmo che il primo decennio del nuovo millennio era stato per l’editoria italiana una specie di età dell’oro. Lo capimmo dopo, come succede sempre, e da un punto di vista più brutalmente materiale e commerciale che letterario, per cui fummo subito consapevoli che la nostra età dell’oro non avrebbe gettato alcuna ombra sulla gloriosa stagione dei nostri nonni e padri nobili.

L’editoria libraria è un mercato piccolo, del resto, e si gonfia e sgonfia con una certa rapidità, come ha sempre fatto, e allora altri momenti buoni certamente seguiranno in futuro, anche se il mondo è cambiato e i successi arrivano senza sedimentare, senza scavare, senza mettere radici, come pioggia torrenziale o fiammate alte e brevi sopra una crosta smemorata e impermeabile di terra.

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