Il filosofo israeliano propone di ricalibrare la costituzione dello stato d’Israele e i rapporti tra cittadini sulla base dell’universalismo radicale. Dal suo punto di vista il futuro del medio oriente è una federazione bi-nazionale, che chiama “Repubblica di Haifa”, ma «non come progetto anti-israeliano, nemmeno anti-sionista»
La distruzione della Palestina è anche la distruzione di Israele». Per Omri Boehm, filosofo israeliano e professore associato di filosofia alla New Yorker New School for Social Research non va per il sottile. La sua visione critica del governo Netanyahu è stata ospitata da molte pagine della stampa di sinistra tedesca, ma ha anche fatto sì che l'ambasciatore israeliano in Germania Ron Prosor abbia protestato in maniera così feroce contro il suo intervento per l’anniversario della liberazione del campo di sterminio di Buchenwald da far sì che l’appuntamento fosse rimandato.
Il suo nuovo libro si chiama Universalismo radicale. È anche la posizione filosofica su cui lavora da tempo. Cosa significa?
La questione dell’universalismo radicale discute se possiamo ancora sostenere la nozione di umanità come origine delle nostre norme, e dei nostri doveri, soprattutto quando questi derivano dal nostro impegno verso l’umanità e si trovano in conflitto con i diritti che derivano dalla nostra cittadinanza.
Nel suo lavoro attinge a testi che sono considerati identitari per tradizioni di destra e di sinistra. Come si tengono all’interno della sua linea di pensiero?
Ho voluto mettere in dialogo tre testi che crediamo, in un certo senso, di conoscere, ma che in realtà sono antichi reperti di una certa tradizione, la Dichiarazione d’Indipendenza americana, Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo? di Kant e il sacrificio di Isacco nella Bibbia.
C’è un elemento in questi testi che non comprendiamo fino in fondo, ma che essi possono ricordarci: è la questione della disobbedienza radicale. Di conseguenza, la questione dell’obbedienza diventa centrale nell’universalismo. Hannah Arendt ha una citazione famosa: Kein Mensch hat das Recht zu Gehorsam – Nessun essere umano ha il diritto di obbedire. Questa è in realtà una definizione di umanità: non abbiamo il diritto di obbedire. E gli esseri che non hanno il diritto di obbedire possiedono dignità.
La religione, in particolare, è stata lasciata troppo appannaggio della destra?
Mi colloco a sinistra, ma non direi di appartenere alla sinistra marxista. La mia posizione sull’universalismo rimane relativamente neutrale rispetto alle categorie di destra e sinistra. Non direi nemmeno che la mia interpretazione della Bibbia sia una lettura "di sinistra", anche se certamente è una lettura universalista. E non penso nemmeno che la sinistra abbia abbandonato la religione. Ciò che direi, però, è che la sinistra ha commesso un errore enorme nel momento in cui ha abbandonato l’umanismo. Molte correnti della sinistra oggi vedono l’umanismo come un’espressione del colonialismo europeo. È vero che il concetto di umanità è molto complesso e può essere usato per giustificare ideologie coloniali ed escludenti, ma ridurlo a una maschera dell’ideologia occidentale, invece di rivendicare quella tradizione e mostrarne il potenziale più radicale contro il colonialismo, è un errore.
Restiamo sul concetto di complessità. I suoi detrattori sostengono che lei piaccia alla sinistra tedesca perché incarna “l’ebreo buono”. C’è un livello di complessità della situazione mediorientale che in occidente si perde?
Credo che la sovranità ebraica fosse necessaria dopo la Shoah, ma che oggi sia diventata autodistruttiva. Voglio mostrare che dobbiamo andare oltre l’idea di Stato ebraico, e oltre la soluzione dei due Stati, verso una federazione bi-nazionale, che chiamo “Repubblica di Haifa” – non come progetto anti-israeliano, nemmeno anti-sionista.
Qual è il problema del dibattito in Germania?
I tedeschi vedono gli ebrei come le vittime ultime. E vedono l’insistenza nel chiedere il rispetto del diritto internazionale come messa in discussione del diritto alla difesa delle vittime assolute della Shoah. A sinistra, invece, molti dopo il 7 ottobre sostengono che se si ritiene Hamas responsabile per i suoi orribili crimini, allora si mette in discussione il diritto dei popoli colonizzati a liberarsi.
Avrebbe dovuto parlare all’ottantesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Buchenwald. L’intervento dell’ambasciata israeliana ha provocato la cancellazione del suo intervento. Come ha vissuto questa intromissione dell’emissario del governo?
Ron Prosor è un eccellente rappresentante del suo governo, quello di Ben Gvir e Smotrich. Sarebbe un errore paragonare questo governo a quello di Meloni o Orbán. È molto peggio, molto più radicale, molto più violento. Persone come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich hanno vere ambizioni terroristiche. Sono stati condannati. Ben Gvir ha sostenuto l’assassinio di Yitzhak Rabin ed è oggi ministro della Sicurezza Interna.
Onestamente non mi ha turbato molto il tentativo di Prosor di criticarmi o di fermare il mio intervento. Non è stata una sorpresa. Sono più deluso dal fatto che alcune persone abbiano presentato ciò che sono venuto a dire a Buchenwald come una violazione del tabù della commemorazione tedesca della Shoah, e che pochissimi abbiano avuto il coraggio di dire che era esattamente l’opposto.
Qual è stato il problema?
Gli intellettuali tedeschi si sono dimostrati irresponsabili, o per dirla francamente, codardi, perché chiunque conosca la storia tedesca sa che sono venuto proprio per difendere la memoria. L’unico modo per impedire che gli orrori si ripetano, per opporsi al nazionalismo che va di pari passo con l’antisemitismo, è trasformare l’ordine internazionale attraverso la legge cosmopolita fondata sulla pace.
I tedeschi parlano giustamente di uno Zivilisationsbruch, una frattura della civiltà. L’unica risposta adeguata a una crisi del genere è capire che non si può semplicemente schiacciare i nazisti con la forza, ma serve un cambiamento radicale della mentalità, una rivoluzione del pensiero.
La sua repubblica di Haifa è più lontana che mai?
Oggi parlare di pace sembra passato di moda, si preferisce discutere di pulizia etnica e crimini contro l’umanità. Una delle cose che abbiamo imparato da Kant è che se non esiste una politica con un ideale di pace, allora segue quasi inevitabilmente una logica di sterminio. Per questo motivo è fondamentale preservare un ideale di pace anche in tempo di guerra.
Perché la soluzione dei due stati non è risolutiva?
Il problema della soluzione dei due stati non è che non sia realistica, è che non rappresenta più un ideale di pace. L’impegno reale di chi oggi sostiene la soluzione dei due stati non è la pace, ma la sovranità ebraica. Per loro se si può rendere la sovranità ebraica compatibile con la pace attraverso due stati, bene. Ma se non è possibile, pazienza. E, esplicitamente o con il loro silenzio, accettano le conseguenze.
In cosa differiscono le due prospettive?
L’estrema destra oggi sostiene apertamente la pulizia etnica e alternative peggiori. I sionisti liberal/progressisti che parlano della soluzione dei due Stati hanno accettato questo fatto. Non è un caso che persone come David Grossman, ad esempio, non abbiano detto una parola contro la guerra. Grossman ha parlato di un cessate il fuoco per riportare a casa gli ostaggi israeliani, non per proteggere le vite dei palestinesi.
Il fallimento deriva dall’abbandono dell’ideale di pace. Ai critici dicevo: «State discutendo se Israele sia uno Stato di apartheid o meno, ma siete in ritardo. Molto presto, se il discorso non cambierà, il dibattito non sarà più sull’apartheid, ma sulla pulizia etnica». La realtà è che all’interno dei confini de facto di Israele, c’è circa il 50 per cento di palestinesi. E lo stato dovrà difendersi, sostanzialmente, dalla maggioranza della sua stessa popolazione.
Universalismo radicale, oltre l’identità, Marietti 1820 editore, pp. 160, euro 15,20. Ripercorrendo l’appello umanistico dei profeti biblici, del pensiero kantiano e di figure come Abraham Lincoln e Martin Luther King, Boehm costruisce un quadro che offre una via d’uscita al dibattito, ormai in stallo, sull’identità.
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