Quando, lo scorso weekend, Cesare Prandelli, anni 63, ex centrocampista di Cremonese, Juventus e Atalanta, di professione mister in serie A con un vissuto di quattro anni da tecnico della nazionale, ha deciso di togliere il disturbo, lo ha fatto in mancanza di una richiesta rituale da parte del datore di lavoro, o irrituale dei tifosi. Semplicemente ha salutato tutti e se n’è andato, spiegando che «in questi mesi è cresciuta un’ombra dentro di me, che ha cambiato il mio modo di vedere le cose».

Qualcuno ci scherza pure su, a Firenze direbbero baloccare, sullo stress da panchina, e sugli allenatori che finiscono nel pallone; a chi segue le vicende del calcio è tornato alla mente l’autopensionamento clamoroso di un altro allenatore di razza, uno da titoli in serie A, trionfi in Europa e da nazionale come il prode Arrigo Sacchi. Era il burattinaio del Milan dei fenomeni, il teorico del “calcio totale” che, ai tempi d’oro, non faceva un plissé neanche quando gli si faceva notare che un ex difensore della squadra della parrocchia di Fusignano, con una presenza fisica da coppa Cobram, si permettesse di spiegare con sicumera a Gullit, Baresi e Van Basten cosa dovessero fare con la palla. La medesima persona, tornata a lavorare per il piacere di seguire un progetto di medio cabotaggio, quasi restò vittima di sé stessa nel corso di una anonima trasferta del Parma, a inizio stagione 2001. «Credevo di non finire la partita», aveva confessato il Sacchi agli amici del paese, prima di vergare la lettera di dimissioni irrevocabili: extrasistole, tachicardia e la sensazione che il cuore fosse salito così in alto da poterlo masticare. Così, senza motivi apparenti. Possibile, trionfare in Champions League nella notte delle stelle e poi, con tanta esperienza in più e altrettanta pressione in meno, farsi sopraffare da una domenica qualunque di campionato?

Quella volta, peraltro, Sacchi non venne compatito, né coccolato. Anzi. Dalle parti dello stadio Tardini fece bella mostra di sé uno striscione spietato: «Sacchi: lo stress è alzarsi ogni mattina alle quattro». Nella sagace ma spiccia filosofia della curva, dove gli argomenti spaziano dal caro-abbonamento alla cassa integrazione in famiglia, una passione che diventa lavoro favolosamente retribuito deve necessariamente lavare via ansia e disperazione. A Cesare Prandelli, invece, è stato riservato il trattamento più accondiscendente che un tifoso possa concepire, benché la Fiorentina navighi in acque pericolose nel giorno dell’abbandono del suo timoniere: «Vien prima l’uomo dell’allenatore / per sempre fieri del tuo amore». Firmato, la curva Fiesole. Prandelli, allogeno bresciano, con Firenze divideva un sentimento autentico, ampiamente ricambiato. La città gli aveva riconosciuto merito con il Fiorino d’oro nel 2009, premiando il miglior rapporto qualità-prezzo tra le squadre di campionato di allora, e la rinuncia a contratti ben più pesanti rispetto a ciò che la società viola gli potesse garantire. E sono quelle, con ogni probabilità, le «cose belle» cui Prandelli ha fatto riferimento, insieme alle «scorie e veleni che, talvolta, ti presentano il conto tutto assieme». Nella lettera di commiato, non ha neppure provato a smorzare il lessico: «Mi trovo in un assurdo disagio». Che è tale, probabilmente, per la distonia tra l’ambiente esterno, nervoso per la posizione infelice in classifica ma non così esasperato, e il proprio sentire interiore, che dichiara uno stato di emergenza incomprensibile anche a chi lo ha concepito, e chiede una fuga immediata. Un incomodo non tangibile, «che non mi permette di essere ciò che sono. Per il troppo amore, sono stato cieco davanti ai primi segnali che qualcosa non andava, qualcosa che non era esattamente al suo posto dentro di me. Probabilmente, questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la vita non fa più per me e non mi ci riconosco più. Sicuramente sarò cambiato io, e il mondo va più veloce di quanto pensassi».

Vulnerabilità

Trent’anni prima, ad Aldo Agroppi (pure lui due volte allenatore della Fiorentina, pure lui messo in fuorigioco da un male dell’anima) era toccato cavarsela dalla depressione, cagionata anche dalle aspettative e dal disinteresse dei giocatori, soprattutto «quelle mezze tacche che si credono arrivati perché guadagnano due milioni di euro e se ne fregano dei tuoi problemi». E ha suggerito che abbia fatto bene, Prandelli, a dimettersi. «Quello è un mondo in cui si è sempre in lotta. Forse, sia io sia lui non avevamo più i requisiti per starci: si finisce per vivere la professione in maniera angosciante. Da lì, basta poco per passare allo stress e alla depressione. Il calcio invecchia, e Prandelli l’ho visto invecchiato».

Nel – forse troppo – citato Open di Andre Agassi, la biografia i cui ingredienti di romanzo restano in buona parte non dichiarati in etichetta, rimane traccia di una discesa agli inferi per certi versi similare e, certamente, utile a spianare la strada ad altre dichiarazioni di vulnerabilità nel mondo dello sport. A 27 anni, milionario, famoso come una rockstar ma in crisi agonistica, il Kid di Las Vegas si ritrovò in un albergo tedesco, dopo aver rimediato l’ennesima eliminazione al primo turno. «C’era ancora gente che veniva a vedermi, ma avevo dimenticato come si colpiva una palla. Ero nella mia stanza dopo la partita persa, guardavo fuori dalla finestra. Osservavo il traffico. Non ho mai odiato il tennis così tanto come in quel momento». È l’incipit di un capitolo dedicato alla depressione. Che non è un momento di tristezza prolungato, ma una patologia che sovverte i colori dell’esistenza e nega alla radice qualunque via di salvezza che non siano rassegnazione, angoscia e resa. Agassi aveva divorziato dall’attrice Brooke Shields, si era avvicinato agli stupefacenti, era un’anima persa e in pena. La storia di Prandelli è un’altra: purtroppo, dalla moglie Manuela si era dovuto traumaticamente congedare già nel 2007, dopo una lotta gagliarda contro una malattia atroce. E la sua, a ben vedere, sembra non tanto una vicenda di depressione, del vigliacco male oscuro di Giuseppe Berto, quanto di un suo parente altrettanto insidioso, se trascurato: l’esaurimento. Il cedimento al peso dell’esserci, il rifiuto del calcio per sfinimento.

Rimanendo nel parallelo tennistico, semmai, Prandelli potrebbe essere accomunato al meno celebre Mardy Fish. Un campione cui era toccata una sorte bislacca, risoltasi in un episodio ancora più penoso e disperato di un congedo con lettera aperta. Fish era un giocatore medio che si era deciso a diventare campione, raddoppiando gli allenamenti e dando un giro di chiave al frigorifero, per alleggerirsi. Tanto che si era arrampicato fino alla settima posizione mondiale, si era guadagnato un posto fisso in Coppa Davis e, soprattutto negli States, era finalmente diventato un personaggio. «Mancano poche ore prima di giocare la partita di tennis più importante della mia vita», avrebbe raccontato tre anni dopo quel pomeriggio del 2012, in un testo sul web dal titolo Il peso. «Ottavi di finale degli Us Open, nel Labor Day, nel giorno del compleanno di mio padre, sul campo centrale, in diretta sulla Cbs, contro Roger Federer. Sto per giocare contro il tennista più grande di tutti i tempi, con la possibilità di raggiungere il mio miglior risultato nel mio torneo preferito. È la partita per cui hai lavorato e ho fatto sacrifici per un’intera carriera».

«Appassito come persona»

E quindi? Un tripudio. Invece no. «Non posso farlo. Davvero, non posso. Mi trovo sulla macchina che mi sta portando ai campi e sto avendo un attacco d’ansia». La moglie se ne accorge, gli domanda cosa ci sia che non va. Lui glielo dice: è terrorizzato, non vuole giocare. E lei ribatte: «E allora non devi giocare, se non vuoi. Non giocare». Fish si ritirò, non solo da quella partita ma dal tennis e, per un po’, dalla vita. Sparì dalla circolazione. Tornò, nel 2015, sempre agli Us Open, riemergendo dal ritiro solo per disputare un ultimo incontro, senza velleità di successo ma perché non ci stava, a far scrivere l’ultima riga della sua biografia sportiva all’ansia, che gli aveva rubato i momenti più belli. Lo stesso Prandelli si dice consapevole che, questo, potrebbe essere il suo capolinea ma non vuole avere rimpianti, «solo ritrovare chi sono veramente». Quando il disagio prende il sopravvento, non c’è santo – o contratto – che tenga. André Gomes, titolare del Barcellona e della nazionale portoghese, 5 milioni di stipendio l’anno, visse con malessere crescente le aspettative sul suo conto, giacché era chiamato a sostituire, nei cuori dei tifosi, un fuoriclasse come Iniesta. Non ci riuscì e arrivò a non osare più camminare per strada. Ad avere la nausea nel calpestare l’erba del Camp Nou, il sogno di milioni di ragazzini.

Gigi Buffon, a dispetto della carriera stellare e di un atteggiamento esteriore da surfista dell’esistenza, raccontò di quell’anno in cui iniziò a sentirsi inspiegabilmente stanco. Poi legnoso nel deambulare, tanto da avere difficoltà anche a guidare. Nel suo caso, il circolo vizioso casa-allenamenti-partita-divano lo aveva fatto afflosciare: «Mi sono appassito come persona, ho fatto atrofizzare il cervello». Ne uscì visitando una mostra di Chagall. Prandelli, da uomo di mondo e personaggio che ha coltivato la misura e il senso delle cose, anche dopo quarant’anni di nozze col pallone la troverà altrove, la sua pace.

 

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