Quando i camionisti erano i veri critici gastronomici

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è come si salvano i ristoranti. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. Un tempo scegliere un ristorante era un’operazione semplice, quasi un gesto istintivo. Non c’erano app, algoritmi, influencer che si improvvisano critici gastronomici o recensioni lunghe come una tesi di laurea: bastava uno sguardo al parcheggio. Se nel piazzale stazionavano due o tre camion, la trattoria meritava fiducia. Una sorta di algoritmo ante litteram: chi viaggia per mestiere non ha né tempo né denaro da buttare. Se un camionista si ferma lì, significa che si mangia bene – o almeno tanto – e a prezzo onesto. La prima vera guida era scritta dall’usura delle gomme dei Tir, con la certezza di un ragù abbondante e di un conto che non faceva piangere. Dal culto dello chef al diritto al cibo di qualità: come sta cambiando la ristorazione Ma in Francia avevano già capito che si poteva fare di meglio. I fratelli André ed Édouard Michelin, nel 1900, decisero che l’automobile doveva smettere di essere un capriccio da aristocratici e diventare un’abitudine di massa. E come convincere la gente a mettersi in viaggio? Con un piccolo volumetto regalato agli automobilisti che segnalava meccanici, benzinai, alberghi e – sorpresa – anche ristoranti. L’idea era geniale: più gente viaggia, più gomme si consumano. All’inizio era solo un elenco pratico, ma nel 1926 comparvero le prime stelle: una per i ristoranti “buoni”, due per quelli che “meritano una deviazione”, tre per quelli che “valgono il viaggio”. Una scala che univa patriottismo gastronomico e strategia commerciale. E negli anni Trenta arrivarono pure gli ispettori anonimi, veri 007 del gusto, con taccuino in tasca e palato allenato. Da lì in poi, un piccolo segno grafico poteva consacrare o condannare un ristorante. Soft Boy Cooks e Gym bros: diete e cucina definiscono la mascolinità social L’affronto francese In Italia la guida Michelin sbarca nel 1956, accolta con un certo sospetto: che i francesi venissero a insegnarci dove si mangia bene sembrava quasi un affronto. Ma intanto stava arrivando il miracolo economico, con il turismo di massa e la voglia di viaggiare. E così, nel giro di pochi decenni, la guida rossa diventò un riferimento assoluto. Intanto, però, nel paese reale la regola dei camionisti restava in vigore: fino agli anni Settanta e Ottanta, la trattoria piena di operai e viaggiatori era ancora il marchio di qualità più affidabile. Luigi Veronelli, il primo a portare un linguaggio critico nel mondo del cibo, amava dire che «il vino è il canto della terra attraverso l’uomo», ma ricordava anche che senza convivialità e sostanza non c’è punteggio che tenga. Poi arrivarono gli anni Novanta, la vera stagione d’oro delle guide italiane. In realtà il fermento era iniziato prima: nel 1977 nasceva la Guida dei Ristoranti d’Italia de L’Espresso, con il sistema dei “cappelli” e uno stile diretto, a volte polemico, che rompeva con la reverenza tradizionale. Nel 1988 arrivò Osterie d’Italia di Slow Food, un progetto più culturale che commerciale, che rivendicava il valore delle cucine di territorio, delle ricette tramandate oralmente, delle mani callose che sanno impastare senza dosatore. Nel 1991 si aggiunse il Gambero Rosso, con i suoi “tre gamberi” per le trattorie e i “tre bicchieri” per i vini, trasformando la critica gastronomica in fenomeno pop. Da quel momento il ristorante non era più solo un posto dove mangiare: diventava un palcoscenico. Stella Michelin, la droga e l’ossessione degli chef dai benefici incerti Accogliere la sfida E i ristoranti come reagirono? Alcuni si reinventarono, trasformando la cucina di tradizione in una palestra di creatività pur di inseguire un punteggio. Altri fecero scelte opposte, ostentando orgogliosamente un menu “senza voto” ma con la sala sempre piena. Le guide hanno plasmato una generazione di cuochi attenti a ingredienti, consistenze ed equilibri, ma hanno anche imposto standard e aspettative spesso insostenibili. Non sono mancati casi di locali chiusi dopo la perdita di una stella e di altri rinati grazie a una citazione inaspettata. Di sicuro hanno cambiato il modo in cui mangiamo fuori casa e il valore che attribuiamo al gesto. Oggi, la stella Michelin è un marchio di lusso. Per alcuni significa prenotazioni a raffica, per altri è una gabbia dorata. Il rischio evidente è l’autoreferenzialità: cucine pensate più per stupire i critici che per nutrire i clienti. Brillat-Savarin, nel suo immortale Fisiologia del gusto del 1825, ricordava che «il destino delle nazioni dipende dal modo in cui si nutrono». Una frase che, a rileggerla oggi, suona come un avvertimento: se riduciamo il cibo a spettacolo, dimentichiamo la sua funzione sociale. La guida Michelin premia i piatti ma ignora chi molesta in cucina E intanto, mentre gli chef stellati aprono ristoranti a Singapore e Dubai, molti italiani guardano con nostalgia alle vecchie trattorie di campagna. Quelle con il menù fisso, il vino in caraffa e le tovaglie a quadretti. Peccato che, spesso, anche queste siano diventate la caricatura di sé stesse: sedie scompagnate e bicchieri da osteria non sono più frutto del caso, ma di un design studiato al millimetro per sembrare “autentico”. Eppure, nonostante stelle, cappelli, gamberi e ispettori in incognito, resta una verità difficile da ignorare: il miglior indicatore di qualità è ancora la fila davanti alla porta. Non serve il bollo della guida rossa se trovi il parcheggio occupato da camion, furgoni o utilitarie con i seggiolini dietro: vuol dire che lì dentro la gente mangia volentieri. E questo, alla fine, resta il giudizio più spietato e sincero che ci sia. Il problema è che troppe volte l’alta cucina rischia di dimenticarselo. [Missing Caption][Missing Credit]