Michelangelo Merisi ha rappresentato Gesù numerose volte, ma mai con la potenza emotiva raggiunta in La presa di Cristo. Come esseri umani siamo evolutivamente portati ad avere un’attenzione immediata per le espressioni dei volti, che in quest’opera sono assolutamente centrali
La mostra di Caravaggio a Palazzo Barberini, a Roma, lascia senza fiato. Oltre ai molti capolavori noti, la mostra presenta anche opere raramente o mai esposte al pubblico, come La conversione di San Paolo. La selezione dei dipinti è impeccabile: il numero relativamente contenuto consente allo spettatore di assimilare più profondamente quanto esposte e, soprattutto, di cogliere il contrasta tra il primo Caravaggio – spesso sensuale, volgare ma sicuro, il mauvais garçon dell’arte barocca – e quello della maturità, più religioso, pur restando sensuale, e ancora più straordinario nella sua maestria.
Molti storici e critici d’arte hanno analizzato, e continueranno ad analizzare, con ben maggiore competenza di me, le straordinarie qualità artistiche e pittoriche dei capolavori di Caravaggio. In quanto neurobiologo, e per ragioni di spazio, mi concentrerò su un solo dipinto: La presa di Cristo. Caravaggio ha rappresentato Cristo numerose volte, ma mai con la potenza emotiva raggiunta in quest’opera.
Lettura neurobiologica
Nel tentativo di offrire, per quanto possibile, una lettura neurobiologica di questo quadro, è necessario ricordare che il volto gode di una rappresentazione molto privilegiata nel cervello. È ormai riconosciuto che gli esseri umani nascono con una capacità innata, o acquisita molto rapidamente, di percepire i volti, o che ereditano un modello cerebrale che consente di riconoscere specifiche configurazioni di stimoli visivi come un volto umano. Ciò non sorprende: attraverso il volto viene trasmessa un’enorme quantità di informazioni, non solo sull’identità di una persona, ma anche sul suo stato d’animo ed emotivo in un determinato momento.
Gli esperimenti sui movimenti oculari dimostrano che, di fronte a un dipinto, semplice o complesso che sia, l’attenzione si concentra sempre su i volti, indipendentemente dalle loro dimensioni, posizione o rilevanza all’interno della composizione.
La capacità di cogliere lo stato emotivo di una persona attraverso l’osservazione del volto si basa, almeno in parte, su un principio che Charles Darwin illustrò nel suo libro L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali. Felicità, tristezza, rabbia, sorpresa, umiltà e molti altri stati si manifestano attraverso la contrazione di gruppi di muscoli diversi e specifici.
I muscoli coinvolti e i loro schemi di contrazione per trasmettere lo stato emotivo sono pressoché identici in tutti gli esseri umani, rendendo così la comunicazione emotiva straordinariamente immediata.
Un pittore, rappresentando accuratamente tali contrazioni, può quindi trasmettere lo stato d’animo attraverso una rappresentazione accurata dello schema di contrazione dei muscoli del viso; l’interpretazione data da quasi tutti gli spettatori a tale rappresentazione varierà di poco. Non esiste esempio più emblematico di questa potenza comunicativa del volto di Cristo in questo dipinto. Non vi è alcuna soggettività nella sua rappresentazione: lo stato emotivo di Cristo viene interpretato da chiunque nello stesso modo, con una forza che trascende differenze culturali o personali.
Allusioni profonde
Gli storici e i critici d’arte non sono unanimi nell’individuare quale aspetto de La presa di Cristo meriti più risalto. I curatori della mostra di Palazzo Barberini hanno scelto di enfatizzare, nella didascalia, quello che molti considerano essere un autoritratto di Caravaggio, raffigurato all’estrema destra del dipinto, con la lanterna in mano e un’espressione di interessata curiosità. I più vedono nel magistrale chiaroscuro utilizzato da Caravaggio nascoste allusioni pittoriche a profondi stati psicologici; attribuiscono al pittore intenzioni specifiche in particolari dettagli del dipinto, come la luce riflessa sull’armatura altrimenti scura del soldato al centro della scena.
Tuttavia, queste sono interpretazioni che i meno esperti di pittura e di storia dell’arte possono condividere o meno: probabilmente, molti spettatori non vi attribuiranno alcun significato particolare.
Con i volti, invece, è diverso: nessuno può ignorarne il ruolo centrale nel dipinto, anche se il volto di Cristo, forse intenzionalmente, non occupa il centro della tela ma l’estrema sinistra. Molti concorderanno anche sul fatto che, pur disposti in modo inconsueto, i volti di Cristo e di Giuda – che lo bacia per segnalarlo ai soldati nell’orto del Getsemani – costituiscano il cuore emotivo del dipinto, trasmettendo una scena di tragica urgenza. Nessuno potrebbe interpretarla come gioiosa o rasserenante.
Ma è l’espressione del volto di Cristo, e in misura minore quella di Giuda, a costituire il vero fulcro del dipinto. Essa è insuperabile nella storia della ritrattistica e conferisce all’opera un posto unico non solo nell’arte barocca, ma in tutta l’arte del ritratto. È dunque solo su questo volto che desidero concentrare l’attenzione in questo articolo. Una scelta che potrebbe apparire sorprendente: molti, infatti, considererebbero La presa di Cristo come un’opera narrativa piuttosto che un ritratto, e isolare in questa descrizione il solo volto di Cristo potrebbe sembrare un’ingiustizia nei confronti della complessità del dipinto.
Eppure, è proprio nella rappresentazione del volto di Cristo che si concentra la genialità di Caravaggio. Anche se isolato dal resto della scena, questo volto comunica un’immensa e insopportabile tristezza, angoscia e disperazione; e dentro quella tristezza, trasmette un senso di rassegnazione, di accettazione del tradimento e dell’abbandono. Per chi conosce la storia biblica il volto di Cristo sembra persino prefigurare il terribile dubbio espresso sulla croce, uno dei più grandi dubbi della storia umana – «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
L’ambiguità
Ho già accennato ai molteplici stati emotivi che Caravaggio trasmette nel ritratto di Cristo. Tuttavia, uno spettatore non percepisce tutte queste interpretazioni simultaneamente. C’è un’ambiguità nel dipinto, ma non nel significato comune di incertezza: si tratta piuttosto di una pluralità di certezze, ciascuna sovrana in un determinato istante, che si alternano nella mente dell’osservatore. Dal punto di vista neurobiologico, dunque, non esiste un’interpretazione corretta perché tutte sono valide.
È una misura della genialità di Caravaggio il fatto che il suo dipinto consente tante letture diverse, comprese quelle riservate a chi conosce il racconto biblico e che rimangono quindi inaccessibili a chi ne ignora la storia. Una delle prove più evidenti della grandezza di questo ritratto sta proprio nella sua capacità di consentire molte interpretazioni in spettatori diversi e in momenti diversi. Ho scritto altrove che l’artista può essere considerato come un neurobiologo: esplora i misteri del cervello e offre soluzioni uniche attraverso i mezzi della sua arte.
Contemplando questo capolavoro, e in particolare il maestoso ritratto di Cristo, vale forse la pena confrontarlo con un altro sommo maestro che condivide il suo nome: Michelangelo Buonarroti, già scomparso al tempo della nascita di Caravaggio. Michelangelo, che generalmente rifiutava di cimentarsi nel genere del ritratto, sosteneva in una delle sue Rime che la ricchezza dei concetti nella sua mente non poteva essere tradotta nel ritratto di una fragile figura umana. Forse gli unici ritratti che fece furono quelli dei due giovani a cui era legato sentimentalmente, Andrea Quaratesi e Tommaso de’ Cavalieri; tuttavia, nessuno dei due raggiunge la potenza e la maestosità del volto di Cristo dipinto da Caravaggio.
Esiste un altro aspetto in cui i due grandi artisti possono essere paragonati. Michelangelo Buonarroti lasciò incompiuti i tre quinti delle sue sculture, ma l’incompiutezza stessa conferisce a quelle opere un’ambiguità feconda, stimolando il cervello a evocare molteplici interpretazioni ed emozioni profonde.
Caravaggio, pur realizzando un’opera compiuta, raggiunge un effetto analogo: anche il suo ritratto di Cristo fornisce uno stimolo ambiguo, capace di suscitare una gamma di emozioni diverse e intense: l’intensità e la complessità emotiva permettono a ogni osservatore di cogliere diverse sfumature, a seconda della propria esperienza e sensibilità.
Abbiamo dunque due modalità contrastanti di sollecitare l’immaginazione dell’osservatore: l’incompiuto da un lato, il compiuto dall’altro, entrambi capaci di generare una pluralità di interpretazioni.
Questo non certo per sminuire il sommo Michelangelo Buonarroti, ma per esaltare ancor più la grandezza di Michelangelo Merisi da Caravaggio.
©Semir Zeki, 2025
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