Sono quattro. Un’oca, una sterna (forse), una nube di scriccioli invisibili, un puffin. Sono islandesi. A volte sono puri, nel senso che nascono vivono volano cantano si riproducono muoiono in quella che Giorgio Manganelli chiamava l’«isola pianeta», tra la Groenlandia e lo spazio siderale; altre volte hanno origini vaghe, sono serenamente meticci, oriundi, in transito, nomadi volanti che non sanno che quella grande crosta di ghiacci sabbie vegetazione bassa campi di lava cittadine minuscole case di legno sporadiche casupole di torba venti che si annodano e si dipanano sole estivo anche di notte pioggia continua, caparbia, introversa e teneramente nevrotica, e un catalogo inesauribile di cieli, si chiama Islanda. Non lo sanno, non lo sapranno mai: di fatto neppure gli interessa.

L’oca

Dei quattro, l’oca è stata la prima. Una decina d’anni fa, forse qualcosa di più. Percorro i sentieri scuri e ruvidi di Þingvellir, a poche decine di chilometri da Reykjavík, dove ancora prima dell’anno Mille prese forma la prima esperienza parlamentare europea: centinaia di uomini si radunavano, discutevano, ripetevano quello che uno diceva così da farsi tamburo umano, cassa di risonanza di un protodiscorso che analizzava decideva e amministrava.

Mentre mi aggiro sopra la dorsale medioatlantica, vale a dire quella faglia che divide la zolla tettonica europea da quella americana, cerco di percepire la Storia, l’irradiarsi nei secoli del pensiero politico, e senza dubbio percepisco la geologia, il canyon che sto attraversando è granulare e basaltico, è una spaccatura scintillante e nobilissima, la materializzazione dell’intelligenza islandese – aspra, concreta, asciutta, tenera, spietata.

Mi fermo, mi guardo intorno. Dopo qualche secondo, uno scalpiccio alle mie spalle. Turisti, penso, esili esili, steli di carne anche loro a spasso nella storia umana e sopra quella ctonia.

Proseguo ma non mi giro, non voglio mostrarmi curioso e così vado avanti tranquillo, ponderato, sobriamente soddisfatto, assorto nelle cose, e intanto lo scalpiccio alle mie spalle si fa più cospicuo; riconosco una specie di allegria del passo, un’andatura che rivela ritmo e baldanza: un’anziana giovanile norvegese, immagino senza voltarmi, i bastoncini da trekking ad accompagnare la passeggiata e il volto protetto da una visiera, e continuo a immaginarla fino a quando l’immaginazione mi passa accanto e mi rendo conto che in realtà la norvegese sportiva è un’oca: il piumaggio color cenere, il ventre come un’alba, il corpo come un’abnorme pera Williams che culmina nel lungo tentacolo del collo e nel becco arancione di cartilagine e cheratina: le zampe rosa inarcate, la lordosi, l’andatura stabilmente barcollante, anserina, il basculamento che non è solo una peculiare allure ma un modo di chiosare il mondo – ironico, autoironico –, e prima di tutto è un commento silenzioso al mio sguardo che osserva l’animale il quale dopo avermi affiancato mi supera, impercettibilmente incespica sul pietrisco, allarga le ali, si sostiene, va avanti, e mentre io rallento e mi fermo l’oca si allontana, penetra nella faglia, perfettamente logica e a suo agio, e quando riprendo a mia volta a camminare mi accorgo che pur non avendolo deciso mi muovo come lei, contagiato dal suo genio un po’ barcollo un po’ scutrettolo, scuoto le braccia come se fossero ali vuote, assorbo e rilascio il comico, per un tratto la perdo e poi la ritrovo sempre orgogliosamente caracollante e a quel punto, studiandone ancora le movenze, ho un dubbio che slitta in ipotesi che slitta in rivelazione e si coagula in imbarazzo: quella che sto imitando è sì l’andatura dell’oca, ma l’oca, quando mi ha raggiunto e superato, stava imitando il mio passo assorto e impettito, lo riproduceva e lo metteva in caricatura, come fanno i mimi nelle piazze, e dunque io adesso sto imitando l’andatura di un’oca che a sua volta sta imitando la mia andatura, e quando di colpo non la vedo più, come se fosse scomparsa nella spaccatura, comprendo che in questo gioco di specchi passi e imitazioni l’oca parlamentare mi ha rivelato che cos’è il mio corpo e com’è fatto il mio velleitarismo, mi ha detto il tempo – questo, adesso, durante il mio primo viaggio in Islanda, ma anche il tempo intorno ad adesso, mi ha descritto il prima e mi ha annunciato il dopo – e mi ha detto le cose, e soprattutto mi ha chiarito che il ridicolo non è un’anomalia ma una struttura, è ciò di cui sono fatto: grazie a un’oca islandese sardonica, io conosco il ridicolo, i suoi superficiali abissi: il senso, come si dice, del ridicolo, ma anche, forse soprattutto, il ridicolo del senso.

La sterna

La seconda è stata una sterna. O magari più di una ma non ho mai avuto modo di vederla bene e identificarla, ogni volta in cui compariva c’era solo il tempo di avvertirne la presenza, il volo che smetteva di essere una cosa del cielo e improvvisamente si concentrava su quanto accadeva quaggiù, sulla superficie, nei dintorni di una cittadina dei fiordi orientali, Egilsstaðir, e più esattamente nei pressi della residenza per scrittori dove ho trascorso un mese, Klaustrið, un toponimo che dentro la mia testa diventava Klaustro e che ribadiva quella che dieci anni fa era una claustrofilia ancora al suo stato nascente, l’embrione del desiderio di stare solo, lontano, chiuso, nascosto, tanto da ricorrere a un ritiro di scrittura per portare avanti quel primo abbozzo di vita clandestina.

Intorno a Klaustrið non c’era niente, non abitava nessuno. La stessa residenza – una fattoria costruita alla fine degli anni Trenta del Novecento da uno scrittore che si chiamava Gunnar Gunnarsson – era frequentata per poche ore al giorno dal personale della casa-museo di Gunnarsson; pulivano, sistemavano, tutto era pronto ma nessun turista, mai, si fermava per una visita; alle cinque del pomeriggio, poco prima che la caffetteria della casa-museo chiudesse, compariva un drappello di archeologi svedesi che, alla fine della loro giornata di lavoro in una zona lì vicino, cenavano commentando – credo, perché di continuo facevano movimenti spatolari con le mani – lo sviluppo degli scavi (seduto da solo a mia volta a cenare due tavoli più in là, ascoltavo il brusio lieve delle loro voci). Dalle cinque e mezza del pomeriggio alla tarda mattinata del giorno successivo ero solo.

Nel caso in cui avessi deciso di uscire dalle mie due camere bagno e cucina, avrei dovuto chiudere bene le porte e inserire gli allarmi. Seppure dubbioso che qualcuno potesse voler violare quel pezzetto di nulla nel nulla, rispettavo scrupolosamente le consegne, come sempre eccitato dalle azioni inutili che discendono da una regola astratta e da un’ansia nevrotica (perché – lo sapevo già allora – sono fatto di regole astratte e di ansie nevrotiche).

E dunque pressoché ogni giorno, tra le dieci e le undici di sera, quando l’aria era ancora trasparente e il cielo limpidamente metallico, inforcavo la bicicletta in dotazione alla residenza e imboccavo l’unica strada percorribile, un primo tratto sterrato e poi l’asfalto. Ogni sera, dopo aver intravisto sparuti branchi di cavalli e qualche pecora remota, avanzavo in direzione di un albero, l’unico della zona, non particolarmente alto ma frondoso, e mentre affondavo la pedalata cominciavo a sentire il cielo compromettersi, sopra la mia testa prendeva forma una traiettoria più udibile che visibile, un volteggiare a spasmi, un succedersi di colpi di falcetto menati all’aria che si spaccava, e allora rallentavo, avvertivo l’inquietudine, avevo paura, fino a quando qualcosa – all’inizio qualcosa, poi una cosa, poi un uccello, poi, fatta qualche ricerca in rete, una sterna o, forse, uno stercorario, più difficilmente un gabbiano di piccola taglia – prendeva a sorvolarmi contraendo sempre di più le traiettorie così da farmi sentire che il cielo e l’aria erano solo un pretesto e che l’unica cosa che esisteva davvero sopra di me era il suo corpo, una roncola fatta di ossa cave e piume ma soprattutto di rancore, un risentimento cupo e insieme sottile che cabrava, si abbatteva, tranciava lo spazio come fosse un tessuto costringendomi a chinare il petto contro il manubrio tanto che la ruota anteriore si scuoteva, sbandavo, cercavo di recuperare l’equilibrio, e mentre quel risentimento chiamato sterna o stercorario tornava su impazzito io affondavo il piede sul pedale e acceleravo per allontanarmi dalla nuova picchiata e da quell’urlo, da quella protesta amara orgogliosa e immedicabile, sentendomi in colpa per l’equivoco, tanto da comporre dentro di me un’orazione muta che si rivolgeva al cielo e a quel suo solitario rancoroso abitante: Che tu sia una sterna o uno stercorario che ha nidificato dentro quell’unico albero islandese, io non sono il tuo predatore, non cerco i tuoi piccoli, sto soltanto passando di qui perché non c’è nessun’altra strada, e dunque sterna, stercorario, animale colmo di pregiudizio, ti prego, impara nel corso dei giorni a riconoscermi, e fai tesoro di questa piccola esperienza: io sono quello che passa, un corpo di carne su due ruote, il cranio ogivale, sì, e sudato, dunque forse scintillante e minaccioso, ma di fatto innocuo, tanto le ossa del mio cranio quanto il linguaggio che anche in questo momento gli si emulsiona dentro non fanno del male a nessuno, tanto meno a te, o a voi, qualora ad attaccarmi e a scacciarmi non fossi sempre tu, uno solo, ma una famiglia, la sterna madre, lo stercorario padre o altri parenti ancora, e quindi, ti prego, facciamo pace, perché seppure è vero che ci sono state epoche in cui pur di sentirmi percepito mi è andato bene anche qualcuno che mi percepisse in inimicizia, elevandomi, a torto o a ragione, a suo avversario – così però conferendomi il privilegio di esistere –, questa non è una di quelle epoche, io da questa strada vorrei passare e basta, affondare la pedalata e ritrovarmi più in là, senza assorbire la forma e il suono del tuo odio, e poi vorrei disegnare una piccola curva e sempre nell’assedio costante della luce vorrei tornare indietro, pedalare fino a Klaustrið – al Klaustro – e rientrare nella mia claustrofilia: spogliarmi, fare una doccia, indossare una felpa e pantaloni comodi, sedere alla scrivania e mentre smaltisco la corsa in bici lavorare ancora un poco prima di andare a dormire, abbozzando scene che dicono cos’è la vita senza figli, non l’infelicità dello scapolo che contempla la stanza vuota battendosi la mano sulla fronte ma qualcosa che sta un po’ prima dell’infelicità, oppure un po’ dopo, non lo so, il disorientamento dello scapolo, la sua incredulità – l’epoca in cui l’esistenza di un figlio mi avrebbe fatto sentire percepito è venuta meno, il figlio è rimasto immaginato, vive nel folto di un albero frondoso davanti al quale non ho fatto altro che passare senza fermarmi mai, senza sfidare la sterna dell’inadeguatezza, lo stercorario del senso di colpa, la massa puntinata dei caradriformi urlanti che per un’epoca intera sembra si agitino nell’aria e invece sono un acufene nel mio orecchio.

I tordi, i regoli, le pispole

A Reykjavík abitavo a qualche chilometro dal centro, esattamente a Hvassaleiti 30. Dopo aver trascorso la giornata in casa a scrivere, indossavo maglietta giacca a vento e pantaloncini e andavo a correre. Superato un primo tratto in piano, raggiungevo un bosco fittissimo e penetravo in un intrico di sentieri poco tracciati e ostacolati dalla vegetazione, così che mi ritrovavo a correre con le braccia sollevate davanti al volto, opponendomi agli ostacoli reali e quelli eventuali, correvo come si fugge in un horror, a ogni passo rischiando di sbattere inciampare cadere, di urtare un ramo pencolante o una radice aerea, e correvo in salita, un declivio per nulla impervio, al contrario morbido e onesto, che conduceva, in cima, a una struttura di vetro e metallo, una cupola lieve e biancheggiante nella luce, si chiamava Perlan e so che aveva a che fare con la geotermia, forse serviva anche come osservatorio o planetario, sicuramente ospitava un ristorante, ma era sempre tutto chiuso, quando arrivavo in cima camminavo rifiatando lungo il perimetro della cupola e cercavo di guardare all’interno ma non riuscivo a vedere nulla se non riflessi ombre trasparenze opacità che si mescolavano tra loro, lo spazio sotto la cupola continuava a farsi percepire come qualcosa di bello e di tenero ma non c’era mai nessuno – e allora, mi dicevo riprendendo a correre in discesa con le braccia sollevate a proteggermi il volto, forse l’Islanda è proprio questa tenerezza inaccessibile, uno splendore in cui di fatto non è mai davvero possibile entrare.

Tanto durante la salita quanto durante la discesa mi muovevo in una nube di scriccioli. Solo che non li vedevo, non percepivo neppure le loro traiettorie, e così gli scriccioli potevano anche essere tordi, regoli, pispole: uccelli, o meglio uccellini saldamente sparpagliati sui rami degli alberi o protetti dai cespugli o dai grandi sassi cosparsi di un muschio smeraldino, una materia che seppure viveva immersa nella penombra aveva sempre qualcosa di sfavillante e di euforico, ed euforico era il canto degli scriccioli tordi regoli pispole, un coro discorde di trilli e sottilissimi zufolamenti, a tratti una specie di grugare più sordo e viscerale ma in generale un moltiplicarsi di sonagli e sonaglini, uno scuotersi leggero di tintinnabuli, correvo proteggendomi e i canti si sciorinavano tra le foglie o assumevano la forma, sempre invisibile, di un grappolo, il suono era un bouquet nel quale riuscivo a distinguere le singole fragranze, non soltanto la qualità del suono ma anche le sue premesse emotive e il suo obiettivo, il canto ozioso era diverso da quello serio, la petulanza affiorava, lambiva la coclea delle mie orecchie e poi si dissolveva, il canto querulo era più insistente ma alla fine anche quello si sbriciolava e svaniva, mentre il canto fatto di pianto era struggente, non imponeva se stesso attraverso il volume, al contrario era modesto ma caparbio, nel momento in cui compariva a una svolta del sentiero non c’era modo che si interrompesse, tanto meno che ricevesse conforto, se uno scricciolo un tordo un regolo una pispola slittava nella mestizia questo suo sentimento diventava inestinguibile, continuavo a sentirlo riverberare tra gli alberi e i cespugli, formicolava attraverso la vegetazione, la aggrediva, la colmava, e quando finalmente sbucavo oltre il bosco e me lo lasciavo alle spalle e continuando a correre mi giravo un momento a osservare la luce radiante che dissolveva la cupola del Perlan la disperazione animale era ancora lì, non soltanto nel crepuscolo del bosco ma dentro le mie orecchie, un acufene, un altro ancora, che non cessava neppure quando rientravo a Hvassaleiti 30 e dopo essermi spogliato entravo in bagno, scavalcavo la sponda del semicupio e mi mettevo seduto per la mia consueta complicata doccia sulfurea, non essendoci sulla parete un supporto per appendere il microfono dovevo tenerlo in mano e allora dirigevo il getto prima contro un orecchio e poi contro l’altro, contro e dentro, cercando di lavare via la polvere della corsa e i pollini le particole sospese della lava e delle resine ma soprattutto la disperazione invisibile ma nitidamente udibile degli scriccioli dei tordi dei regoli delle pispole, vale a dire la cosiddetta realtà per ciò che è, non quello che è manifesto aggettante inequivocabile ma quello che non si vede e che c’è proprio perché non si vede, è invisibile ed è pressoché indicibile, e che per me, mentre gli aghi di acqua sulfurea mi percuotevano le orecchie, era già allora la percezione dei morti, i miei pochi morti del passato e di quel presente ma in particolare quelli futuri, i morti che mi sorprendevano nudo a Reykjavík accovacciato sul bordo di un semicupio nel bagno di un appartamento anni Sessanta abitato per qualche mese di scrittura, l’odore di zolfo che colmava l’aria e dal bagno si dilatava alle altre camere, il ronzio dell’acqua che acuminata provava a pulirmi le ossessioni cocleari, fino a quando, abbandonato il microfono della doccia sul fondo del semicupio – l’acqua che a quel punto, zampillando a casaccio, appariva serena – sollevavo le braccia come nella corsa e le appoggiavo alle ginocchia e poi sistemavo la testa nel nido cavo formato dalle pieghe dei gomiti, reggendola, proteggendola, percependo ancora, lontano, il canto frantumato dei miei morti, le loro voci minuscole, i suoni sottili sfavillanti – ed era l’agosto del 2011, poi era settembre, ottobre, novembre, il 2014, il 2017, adesso è il 2021, i morti futuri sono diventati presenti e di poco passati eppure eterni, gli scriccioli i tordi i regoli le pispole nidificano sotto i miei balconi e dentro gli alberi della via dove abito a Palermo, corro poco, corro meno, ma soprattutto in estate, quando la sera prima di andare a dormire faccio ancora una doccia per rinfrescarmi, a un certo punto sollevo il viso in alto proteggendolo con gli avambracci, l’acqua precipita giù dal soffione, è affilata ma morbida e gentile, il nido del cranio mi si bagna e tra i fiotti e gli spruzzi ascolto ancora il canto struggente degli scriccioli invisibili, il canto dei tordi, dei regoli e delle pispole, la presenza di quello che non c’è e di chi non c’è, e me ne sto così, lì sotto, per non so quanto tempo, desiderando che qualcuno mi chiami e mi chieda Quanto dura questa doccia?, Stai consumando troppa acqua, Dai, vieni a dormire, ma vivo da solo e così abbasso le braccia, chiudo l’acqua, apro il box doccia, prendo l’accappatoio e mi asciugo.

Un puffin

Látrabjarg. Cos’è, chi è, oppure più probabilmente dov’è. L’Islanda è uno spazio vuoto pieno di nomi. Questi nomi, a un orecchio o a un occhio o dentro la mia bocca italiana, somigliano a vetri rotti.

Provo a dire il nome di un luogo e ho la sensazione di masticare schegge, cerco di leggere un toponimo e questi frantumi di silicio me li trovo dentro gli occhi: ogni volta che ascolto una frase in islandese, un miscuglio di cristalli mi si scuote nelle orecchie – di nuovo, indistruttibile, l’acufene. A distanza di oltre dieci anni ricordo però che la cosa Látrabjarg è una scogliera lunga una ventina di chilometri e alta quattrocento metri; nella morfologia complessiva dell’isola coincide con un tratto di uno dei dendriti in cui si articolano i fiordi occidentali.

Se osservata dal mare, la falesia è un abnorme falansterio abitato dai gabbiani. A Látrabjarg, ricordo, sono arrivato via terra poco prima del tramonto e dopo diverse notti trascorse nell’insonnia, e sono andato avanti sonnambolico in direzione dello strapiombo affondando nelle morene e scivolando sui muschi, le scarpe e un pezzo di pantaloni che a ogni passo sparivano nella vegetazione; quando sollevavo glo sguardo c’erano il cielo, un groviglio di voli e di strida di gabbiani, la foschia lattescente: bagliori sparsi: il mare.

A un certo punto mi sono fermato. Percepivo, più in là, il vuoto, ma non riuscivo a capire quanto più in là, avevo paura che il terreno all’improvviso si inclinasse, era un tempo in cui distinguevo ancora tra una morte stupida e una intelligente e allora mi sono chinato, ho proceduto carponi, poi mi sono allungato prono e mi sono messo a strisciare come il fante di una truppa d’assalto.

Dopo alcuni metri, il presentimento del vuoto è cessato e davanti a me, a un braccio di distanza, il vuoto era lì in tutta la sua concretezza, immediato, pronto, veloce, la vegetazione che di colpo svaniva e la superficie che si incurvava precipitando inarrestabile di sotto. Ho sentito il cuore battere veloce, non solo nel petto ma anche nello stomaco, sentivo l’ombelico pulsare contro il terreno umido. Mi sono puntellato sui gomiti, mi sono spinto in avanti, la testa che a quel punto oscillava nello spazio cavo; qualche metro più in basso, serenamente in equilibro su un aggetto di roccia, un puffin che si lavava, un animale che in italiano viene chiamato pulcinella di mare, inspiegabilmente perché quella maschera beffarda e dispettosa della commedia dell’arte non ha nulla a che fare con questo uccello, che al limite è più prossimo alla malinconia di un Pierrot con la lacrima eterna sotto l’occhio e un’espressione in cui la malinconia è l’unico sentimento possibile e reale.

Il puffin non mi aveva sentito e aveva continuato a nettarsi le penne col becco. Avevo fatto un rumore con le labbra, di quelli un po’ schioccanti, scemi, con cui si chiamano i gatti, ai quali i gatti rispondono avvicinandosi. Il puffin mi aveva ignorato. Ero lì, a Látrabjarg, solo per lui, perché dopo averne contemplato lo sguardo fotografato su un flyer all’ufficio turistico di Reykjavík avevo deciso che dovevo vederlo vivo, presente, davanti a me, avevo letto che Látrabjarg era la scogliera che prediligeva per la nidificazione e quindi avevo viaggiato su e giù, lungo il perimetro dei dendriti, sempre più stanco, senza quasi mai dormire, così da raggiungerlo, e adesso, quando infine se ne stava pochi metri sotto di me, al principio dell’orrido, lui mi ignorava.

Non mi ero perso d’animo: strofinando il petto sul terreno mi ero allungato ancora. Di colpo avevo sentito la consistenza del mio cranio, come se il vuoto fosse una bilancia in grado di pesarlo. Pesava, gravitava come un pianetino di ossa carne e pelle, oscillava, e anche leggermente rimbombava; avevo fatto forza sui gomiti, mi ero ritratto.

Qualche metro più giù, il puffin continuava a pulirsi: si frugava col becco, dilatava il torace, un frullo delle ali e poi la sua forma si riconsolidava, lo sguardo si soffermava per qualche istante su un punto cieco dalle parti del cielo e del mare registrandone l’insignificanza, ma questa insignificanza era drammatica, e dunque il puffin tornava a beccarsi tenero le piume in un’attitudine che non era più neppure malinconica, nel suo sguardo c’era tutto, il niente del tutto, il suo era lo sguardo del reduce, di chi sa che la vita – la sua, quella di ognuno – è una cosa postuma, lo sguardo I’ve seen things you people wouldn’t believe, lo sguardo much ado about nothing, e a un tratto, di colpo eppure lentamente, il puffin si era girato verso di me e mi aveva guardato come chi non vede nessuno, mi aveva fissato negli occhi come chi non sta davanti a un cranio umano, a qualcuno che presume di essere una vita, di avere una storia, qualcuno che solo in quel momento, a partire da una precisa contingenza, se ne sta carponi affondato nella vegetazione bagnata, perché di solito è verticale e deambula e parla e scrive e pensa alcune cose e se ne va in giro dentro una trama, nell’ipotesi di un destino, nella pretesa di un’avventura, tutto questo nello sguardo del puffin non c’era, io non ero un chi ma un cosa, allora lo avevo a mia volta fissato – la marsina bianca e nera, il becco a triangolo giallo rosso e blu, gli occhi rotondi neri bordati di arancione che scoppiettavano muti sul piumaggio grigio chiaro della testa, e quella mestizia invincibile, il disincanto mite di chi sa non tanto che tutto è finito ma che nulla, mai, è cominciato, e che tutto questo è evidente, è un dato di fatto, ma non c’è modo di dirlo a nessuno – e fissandolo mi ero reso conto che non era vero, non ero neppure un cosa, in me il puffin non vedeva nessun destino, nessuna trama, nessuna avventura, neppure la polvere di una vicenda secondaria: non vedeva nulla, solo si prendeva negli occhi il sole al tramonto e dopo averlo preso tornava a frugarsi il corpo, piano, sempre più piano, e io ero rimasto disteso allungato su quel pezzo di scogliera, petto e ventre contro l’erba spugnosa, sempre più a mio agio, persino comodo, non mi disturbavano i moscerini e non mi disturbava la cacca in granelli sparsa intorno da chissà quale animale, e ancora meno mi disturbava il vuoto largo e bianco e profondo a cinquanta centimetri dal mio sguardo, e a un certo punto non mi aveva disturbato più neanche il mio sguardo, ricordo appena – e probabilmente invento – che avevo appoggiato una guancia tra il soffice dell’erba e il duro della roccia, avevo chiuso gli occhi e così – liquidato, disperso, o meglio assolto, finalmente superfluo disteso prono sulla scogliera di Látrabjarg, all’estremità più occidentale dell’Europa – dopo tutte quelle notti di insonnia nuda e aspra mi ero addormentato.

Lo sconosciuto

C’è in realtà un quinto uccello islandese con il quale ho avuto a che fare. Mai visto, di fatto, e in un certo senso mai esistito e sempre esistito. Era oca, sterna, stercorario, scricciolo, tordo, regolo, pispola, gabbiano, puffin, ed era cigno, corvo, strolaga, chiurlo, gufo, uria e piviere, germano, smergo e cormorano.

Se ne stava subito sotto lo scarico di un pluviale che correva verticale lungo un tratto di facciata di una fabbrica abbandonata di Djúpavík, un villaggio della zona dendritica occidentale che si era sviluppato tra la falesia di una montagna e il mare, dove all’inizio del Novecento veniva lavorato il pesce.

La grondaia era tutta spaccata, il pluviale veniva giù scrostato, e in fondo, dove il tubo in cui defluiscono le acque meteoriche si apre scaricando al suolo, c’era un sasso ovoidale marrone chiaro picchiettato di efelidi di un marrone più scuro. Mi ero chinato, lo avevo preso e osservato: un involucro di carbonato di calcio dentro il quale, immaginavo, c’era qualcosa di vivente e compatto, di pieno e di denso, qualcosa che solo con quel suo minimo peso rivendicava attenzione e rispetto.

Era pomeriggio; desiderando risolvere il problema avevo guardato in alto in cerca di un nido e poi avevo preso a girare intorno all’edificio per trovare un ingresso, salire su e individuare il punto dal quale l’uovo doveva essere caduto. Ma l’ingresso della fabbrica abbandonata era sprangato, nessun varco permetteva di penetrare nella struttura, non c’era modo di salire in cima e restituire l’uovo alla covata.

Per un momento, non riuscendo mai a sottrarmi alle idee stupide, avevo valutato di avvolgere l’uovo in un involto di carta per provare a lanciarlo oltre il tetto della fabbrica senza che si rompesse, contando sul fatto – l’idea stupida si sviluppava così – che l’uccello giusto avrebbe ritrovato il suo uovo randagio e in un idillio disneyano lo avrebbe riaccolto nella covata fino al giorno in cui quell’uovo, schiudendosi, avrebbe regalato al mondo un volatile che già cucciolo avrebbe recato in sé lo stigma dello smarrimento e della determinazione a sopravvivere, un animale al contempo mite e violento, capace di cabrare planare sbranare così come di risalire bucando verticale l’aria, nelle ali e nel becco adunco la memoria di quel suo primo volo ascensionale compiuto ancora prima di nascere.

Avevo lasciato perdere ed ero andato in giro per Djúpavík, un villaggio in cui non abitava nessuno se non una coppia anziana che gestiva un ostello – in quel momento vuoto e attivo solo per alcune settimane estive, ricavato dal vecchio dormitorio delle operaie della fabbrica – e il loro cane di una vivacità comica e ansiosa che per minuti e minuti, mentre provavo a dialogare con i suoi padroni, aveva continuato a volteggiarmi intorno.

Durante l’intera conversazione, sebbene all’inizio mi fossi rivolto a loro pensando di ottenere un consiglio su che cosa fare, avevo tenuto l’uovo nascosto dietro la schiena, senza mai mostrarlo o raccontare che lo avevo trovato. Avevo gironzolato ancora per il villaggio fermandomi a contemplare il bianco fosforescente di una cascata che sgorgando da una spaccatura in cima alla montagna precipitava di sotto, e, cinquanta metri davanti a me, elegantemente arenato nella sabbia nera, il relitto di una nave da pesca, lo scafo maestoso pressoché del tutto ossidato.

All’imbrunire mi ero seduto su un sasso e avevo preso a rigirarmi l’uovo tra le dita. Guardavo il suo guscio leggermente ruvido e lo toccavo con i polpastrelli domandandogli Chi sei, Dimmi chi sei, Perché so che ci sei ma non ci sei, Non ci sei ancora ma potresti esserci, Vorrei che tu ci fossi, anche se non ho la minima idea se qui dentro ci sia uno scricciolo un puffin un’aquila una strologa o un cucciolo di pterodattilo, io vorrei che tu esistessi ma non so come, desidero restituirti ma non so a chi, il cielo davanti a me è cosparso di voli ma nessuno dice Io, nessuno dice È mio, Sei mio, e quindi non so cosa fare di te, così come non so cosa fare di me, potrei scavare una piccola buca e seppellirti immaginando che si generi un calore sufficiente a covarti fino alla schiusa, oppure potrei abbandonarti in acqua confidando nella vista magnifica di tuo padre o di tua madre che a centinaia di metri di distanza ti vedrebbero galleggiare e dopo averti riconosciuto scenderebbero fino alla superficie dell’acqua per artigliarti e riportarti al nido dove i tuoi fratelli e le tue sorelle, a loro volta non ancora nati, ti attendono, o potrei cedere alla tentazione – che, lo ammetto, esiste e fatico ad arginarla – di picchiettare il tuo guscio con un polpastrello fino a incrinarlo e poi a spaccarlo per guardare dentro, perché tu in questo momento sei un dentro, un dentro che attende di diventare un fuori, e questo è per me ragione di sbalordimento, perché adesso tu sei vivo e sei morto, sei un’ipotesi ma concreta, materiale, o meglio sei un fascio di ipotesi, un miscuglio di possibilità, sei l’oca che imitandomi mi dice che il ridicolo non è un caso o l’eccezione ma la sostanza delle cose, sei la sterna stercoraria che mi scaglia addosso il suo rancore, sei il canto invisibile degli scriccioli, sei chi deve nascere e chi deve morire e sei il puffin che mi guarda senza vedermi, il puffin che ha già visto tutto e sa che non c’è trama, non c’è destino, e l’avventura delle vite umane è solo un’invenzione, e sei anche il libro che vorrei scrivere, il libro di cui conosco appena l’involucro e di cui forse intuisco il nucleo, il libro che osservo da fuori e che procrastino, la forma curva delle frasi future, e mentre continuavo a ragionare su tutto ciò sentendomi come Amleto che dialoga con il cranio di Yorick il pomeriggio era diventato tardo pomeriggio, avevo sentito un rumore vitale e cadenzato aumentare di intensità nello spazio e il cane mi aveva raggiunto subito prendendo a saltare oziosamente gioioso e fissando la materia arrotondata che tenevo tra le dita aveva fatto lo scatto laterale dell’animale che si lancia a rincorrere, e devo dire che per un momento questa idea mi aveva affascinato, avevo pensato di alzarmi in piedi e di scagliare l’uovo in direzione della nave arenata contemplando la corsa del cane, le zolle di terra sollevate nella foga, la ricerca veloce e nervosa, il rinvenimento del trofeo e poi il ritorno trotterellante, in bocca un tuorlo giallo mescolato a frammenti di guscio oppure un uccellino misterioso, bruno o grigio o rossastro oppure bianchissimo, una piccola alba appena nata – ma non avevo fatto niente, avevo aspettato che il cane consumasse la sua gioia e ritornasse verso l’hotel, e allora mi ero chinato in avanti e avevo delicatamente deposto l’uovo sul terreno davanti a me, sulla sabbia mescolata al sassame, una masserella ovale nel pietrisco granuloso, tra i pezzi di lava e la pomice viscosa, i piroclasti, i lapilli e la cenere che, scossa dal venticello proveniente dal mare, si sollevava in piccole nubi chiare.

Avevo atteso, sapendo che in quell’attesa c’era il dubbio, c’era l’esitazione, lo smarrimento, poco scrupolo e parecchia ipocrisia, la contemplazione delle cose che accadono e di quelle che non accadono, il senso di sollievo che discende da quelle che non accadono, e c’era un barlume di fato, un fatalismo ingenuo, e la curiosità nei confronti delle cose orfane, dell’ignoto che appare, che potrebbe apparire, che poteva apparire, dell’ignoto che ancora mi ostino a ignorare. Avevo atteso fino a quando l’imbrunire si era trasformato in un crepuscolo fitto: davanti a me, l’uovo era stato assorbito nell’oscurità facendosi indistinguibile dai minerali.

Solo a quel punto mi ero alzato in piedi e, scricchiolando a ogni passo sul terreno mentre sopra la mia testa tutti gli uccelli d’Islanda volavano implacabili, me n’ero andato via.


Cartolina – Appunti per un’ornitobiografia islandese è un racconto inedito di Giorgio Vasta pubblicato all'interno di Fuglar. Inventario non convenzionale degli uccelli d'Islanda di Hjörleifur Hjartarson e Rán Flygenring (traduzione di Silvia Cosimini, edito da Quinto Quarto) pubblicato il 25 agosto.

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