L’impulso dell’onda è scappare dalla sua origine centrale: scappare in tutte le direzioni. La virtù dell’onda pluviale è trasformare un punto in una circonferenza. La goccia che cade, toccando l’acqua piatta dei canali, provoca un fuggi fuggi di onde rotonde
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Onda isterica
Le piccole onde prodotte dalle barche a motore nei canali cittadini interni sciaguattano e rimbalzano sulle rive, incrociando altre piccole onde che a loro volta hanno colpito la riva opposta e stanno retrocedendo anch’esse di rimbalzo: tutte queste onde che provengono da un lato e dall’altro non si contrastano ma si attraversano reciprocamente, nelle strettoie dei canali; non hanno spazio per dilagare, per dilagunare. Gli studiosi le chiamano “onde riflesse in campo confinato”, ma possiamo chiamarle anche onde isteriche, costrette in vene acquee striminzite, mortificanti. I canali urbani si corrugano con flotte di onde che si muovono in direzioni opposte, come la fronte di un volto attraversata da emozioni contrarie.
Immaginate la sorte di una di quelle onde laterali, che formano una coda diagonale, in espansione dietro la poppa di una barca: creata da uno scafo, l’onda diagonale è nata per spaziare, divaricarsi, allontanarsi dalla sua gemella suscitata sul fianco opposto dello stesso scafo. E invece, delusione: l’onda sbatte subito contro un muro che la costringe a fare dietrofront, a riallinearsi su una diagonale speculare e a fare marcia indietro, puntando di nuovo verso il centro del canale.
Come se non bastasse, eccola fronteggiare la sua gemella, che ha avuto la stessa sorte sul muro opposto del canale. Le due onde non si scontrano né si abbracciano incestuosamente: si incontrano ignorandosi, scavallandosi. E a loro, subito dopo, si aggiungono le onde di un’altra barca, e di un’altra ancora. Ogni onda subisce un destino di rimbalzi, retromarce, incontri e reciproci attraversamenti, e per di più si assomma alle precedenti.
Tutte insieme formano un reticolo caotico, quasi non si distinguono; ma ciascuna è convinta di restare sé stessa, procede con una sua propria direzione e forma: e infatti è possibile distinguerle, in mezzo a quel subbuglio. Allo stesso modo, la società non è un amalgama, non è un magma; è una compresenza di spinte e fronti autonomi, indifferenti agli scopi altrui, che attraversano lo spazio condiviso delle relazioni umane, ciascuno con la sua ambizione che modifica l’economia, con il suo desiderio che modifica l’amore, con la sua frase che modifica il linguaggio.
Mi fermo sempre a guardarle, vorrei essere in grado di penetrare il segreto idrodinamico per cui due flotte di onde contrapposte, invece di snaturarsi a vicenda, si compenetrano e formano incroci di increspature e rigature oblique, poligoni mobili, resi sempre più complessi dall’assommarsi di altri rimbalzi ondosi e nuovi passaggi di barche.
Mi fanno venire in mente la situazione sociale veneziana e italiana nei secoli della modernità, e anche quella mondiale di oggi. Venezia è stipata di case incollate di fianco una all’altra. La penuria di spazi ha causato vicinati necessari, esistenze addossate. Anche la società italiana vive in uno spazio fisico e mentale ristretto: a parte il Canton Ticino, la nostra lingua si parla solo qui, non abbiamo alterità complementari alla nostra, come ce l’hanno portoghesi e brasiliani, inglesi e statunitensi e australiani, spagnoli e argentini e messicani e cubani, francesi e canadesi e africani francofoni, a causa del loro passato coloniale.
Meglio così per noi. Ma il risultato è che gli italiani sono abituati a voltare le spalle al resto del mondo e a guardare fisso dentro il loro territorio, che è lungo e stretto, sopravvalutando ossessivamente le loro beghe interne: producono onde isteriche che sciaguattano e rimbalzano avanti e indietro da una riva all’altra, si attraversano e si compenetrano e mantengono agitata la loro strettoia sociale. D’altra parte, con l’interconnessione informatica, un po’ tutto il mondo si sta trasformando in un canale frastornato da uno scompiglio di onde isteriche.
Cinema delle gibigianne
Le onde dei canali interni hanno un talento cinematografico. O dovrei dire fotocinetico, perché muovono la luce sugli schermi architettonici urbani: le facciate dei palazzi e gli archi sotto i ponti. Sono onde proiezioniste, a cui piace riflettere i raggi solari disegnando strisci e bacchettine e reticoli di luce sulle superfici. Più che cinematografia ondosa, dovremmo chiamarla kymatografia, facendola derivare dal greco kyma, kymatos, “onda”, invece che da kinema, kinematos, “movimento”.
Scrittura dell’onda (cimatografia), dunque, anziché scrittura del movimento (cinematografia). Sono le gibigianne, il cinema delle onde: i riflessi vibratili che l’acqua produce su intonaci e mattoni. “Gibigianna” (o “gibigiana”) è una parola misteriosa, dall’etimologia incerta. Si ipotizza che alluda alle streghe, o comunque a donne dai poteri sovrannaturali (come un altro fenomeno ottico, la fata morgana): si tratterebbe quindi di malie femminee, che gettano sulla città incantesimi ignoti. Benigni o maligni? Fatati o stregoneschi?
Le gibigianne architettoniche veneziane sono di tre tipi. Quelle sulle facciate dei palazzi, quelle sugli scafi delle barche, e quelle sotto gli archi di pietra dei ponti.
Le prime, le gibigianne brulicanti, sono spruzzi di luce che si proiettano sugli intonaci a picco sull’acqua. Possono assumere l’aspetto di stecche e bacchettine da batterista, a mazzetti verticali che tambureggiano di luce i muri; come se l’acqua, proiettando quei riflessi, volesse suonare gli edifici che si inzuppano in lei. Le gibigianne rasentano le pareti esterne e possono salire in alto, fino al secondo e terzo piano, solleticano le facce inferiori di poggioli e balconi.
A volte, nel mio studio al terzo piano, con la coda dell’occhio colgo un’inquietudine che mi sovrasta: alzo la testa e sorprendo una gibigianna nella stanza, un farneticare di bagliori che, dal canale sotto casa, sono rimbalzati fin quassù, hanno attraversato i vetri della finestra e adesso fanno pullulare di luci un metro quadro del soffitto.
Le seconde, le gibigianne avviluppanti, aderiscono agli scafi delle barche per sottolineare la loro appartenenza all’acqua, le artigliano con ganci luminosi, lenze di lucori intrecciati, reti di luce da pesca. Sono contrombre, antiombre: l’ombra infatti è il modo in cui un oggetto, o un corpo, rivela il suo ancoraggio alla terra, la sua dipendenza dalla gravità. L’acqua invece non getta ombra sulle barche che sorregge, ma luce.
Le terze, le gibigianne arcuate, sono intrecci luminosi molto nitidi. Si formano sotto i ponti, quando la luce del sole colpisce un rio e rimbalza sulla faccia inferiore dell’arco, intonacato o di mattoni nudi, con un effetto fantasmagorico. Queste gibigianne sono tipicamente locali, veneziane al massimo grado, perché non c’è altro posto al mondo con così tanti schermi adatti a catturare la kymatografia. Le arcate dei ponti sono le superfici ideali: creano una nicchia d’ombra in cui le gibigianne possono stagliarsi con il maggiore contrasto, facendo spiccare l’epifania luminosa, la fotofania.
Il riflesso si dispone sul soffitto arcuato del ponte formando un reticolo di luce. In quei casi la superficie dell’acqua ama cartografarsi. Appare una centuriazione di poligoni molli, inquieti, losanghe curve accostate una all’altra, di cui si vedono solo i perimetri, fatti di filamenti di luce, che si dimenano serpeggiando e rimangono molto ben delineati; finché non arriva una barca che stravolge la forma delle onde e di conseguenza, passando, sgretola anche il loro riflesso.
Allora la gibigianna si spappola in una purea di chiarori, a chiazze più o meno dense, velature di luce poco brillanti. Bisogna che passi qualche minuto, che le onde si calmino e l’acqua si riappacifichi, perché il disegno reticolare si riformi a poco a poco.
Disco pluviale
Una conseguenza dell’onda piatta, ossia della superficie liscia dei canali urbani, sono le minuscole onde concentriche, o dischi pluviali, che si formano quando piove. Le acque veneziane sono le lavagne ideali per disegnare la pioggia. Nei rii di Venezia le gocce che cadono dalle nuvole possono tracciare con una nitidezza rara il loro progetto circonferenziale, la loro espansione circolare.
Siamo abituati a pensare alle onde come a fronti orizzontali. Ma i dischi pluviali mostrano che le onde sono centrifughe. L’impulso dell’onda è scappare dalla sua origine centrale: scappare in tutte le direzioni. La virtù dell’onda pluviale è trasformare un punto in una circonferenza. La goccia che cade, toccando l’acqua piatta dei canali, provoca un fuggi fuggi di onde rotonde.
Dimostra che in ogni punto è racchiuso potenzialmente un cerchio. Fa vedere che la causa è unica e gli effetti sono molti, ma tutti uguali, conformi e conformisti a sé stessi, come un gregge concentrico che si allontana dalla sua causa, dall’origine che lo ha prodotto e spaventato. Lo si può vedere ovunque, in qualunque pozzanghera di qualsiasi città al mondo, ma in pochi altri luoghi spicca così bene come nei placidi e piatti canali veneziani.
Forse la vera funzione dei canali è questa: ce ne sono così tanti per far sì che, quando piove, l’occhio mediti ovunque sulla natura del tempo. I veneziani hanno vascolarizzato capillarmente
la loro città con canali e rii per poter avere sempre a portata d’occhio lo spettacolo filosofico del tempo che si rivela in forma di onde circolari, di punti che diventano cerchi. Non appena piove ci si può affacciare alla finestra, fermarsi lungo una riva, sporgersi dalla spalletta di un ponte, per osservare i milioni di impulsi ciclògeni che si attivano al contatto fra gocce e superfici dei canali.
I dischi pluviali mostrano che il tempo non è una freccia, un succedersi lineare di momenti. È una congerie di cerchi, miliardi di circonferenze che si dilatano e svaniscono. I dischi pluviali spiegano Zeit attraverso Wetter: il presente non è un blocco unico; è sbriciolato, gocciola in una miriade di istanti che accadono contemporaneamente dappertutto. Gli istanti sono come quei cerchietti di ondine sprigionati dalle gocce di pioggia: sono i minuscoli punti di contatto fra il tempo e la materia, fra gli eventi del mondo e la sua durata, fra la goccia e il canale, fra le acque celesti e quelle terrestri.
Il presente piove di continuo in miliardi di istanti simultanei, anche quando fa bel tempo. Ma durante la pioggia, nei canali veneziani, Wetter coagula Zeit, Weather concretizza Time, lo rende visibile dappertutto in città. E tempus fugit, scappa da sé stesso in tutte le direzioni, in forma di cerchietti che si allargano: il tempo fugge via incessantemente allontanandosi dal momento presente, perché il presente è «assurdo e male», come dice il filosofo Giuseppe Rensi, nelle pagine in cui spiega perché il tempo non si ferma mai: se procede, se va avanti, se corre sempre è per sottrarsi al presente, che gli fa orrore. Ma la sua corsa non riesce a strapparsi dall’adesso; al contrario, lo produce.
Onda piatta
La laguna non è mai ferma. I canali cittadini, i rii, sembrano stagnanti, ma l’acqua si muove: in certe ore con rapidità, in altre lentamente. L’acqua entra ed esce dalla laguna secondo il gonfiarsi e lo sgonfiarsi dell’Adriatico, a seconda delle maree: un movimento fondamentale per impedire che la laguna si imputridisse riducendosi a una palude malsana. Ha lavato per secoli la città, prima che essa si dotasse di un sistema fognario; ancora oggi la depura e la ossigena. È un vero sciacquio, come di un inserviente che getti una secchiata d’acqua su un pavimento, e poi la spazzi via.
Comincio il mio catalogo da questa paradossale onda piatta. Perché è così che appare, anzi, che in certe fasi non appare, si dissimula nei canali interni della città. Un’onda enorme senza cresta, senza dossi né avvallamenti, senza dislivelli curvilinei. Un’onda solitamente invisibile. Non si vede, ma l’onda piatta è l’onda essenziale, è il fondamento stesso della sopravvivenza di Venezia, che le ha consentito di non marcire.
Per osservarla basterebbe scegliere un canale placido, che sembra ristagnare, sedersi su una riva e osservare la superficie. O affidarsi alle alghe, che rivelano le correnti subacquee. Ma si sa che la nostra attenzione è limitata, tende a distrarsi, strattonata da troppi stimoli e notifiche. Io ho avuto la fortuna di contemplare l’onda piatta da un posto speciale. Avevo vent’anni, mi avevano prestato le chiavi di un magazzino a ridosso di un canale, che usai come studio per tutta un’estate, per studiare in pace preparando alcuni esami universitari.
Era al piano terra, o dovrei dire piano acqueo, perché le finestre si affacciavano appena un metro sopra il rio dei Mendicanti, di fronte alla basilica dei Santi Giovanni e Paolo. È un canale piuttosto largo e trafficato che sfocia nella laguna nord; ci passano barche da trasporto per rifornire supermercati e alberghi, spostare materiale edilizio per i restauri. Ma dopo il crepuscolo si spopola, le sue onde si placano. Una notte è successo un prodigio: o meglio, succedeva sempre, solo che quella sera ero rimasto lì a studiare fino a tardi, e me ne sono accorto quando ho spento la lampadina mentre mi accingevo ad andarmene.
La luce del lampione installato sulla riva di fronte cadeva in acqua, rimbalzava sulla superficie del canale, risaliva fino alla piccola finestra del magazzino ed entrava nella stanza in cui mi trovavo: si rifletteva sul soffitto molto basso. Ne risultava un rettangolo fatto di luce flebile ma nitidissima, dato che la finestra era vicina all’acqua del canale.
Quel rettangolo di luce sul soffitto riproduceva minuziosamente ogni dettaglio della superficie: tutto era talmente vivido da far credere che la superficie stessa dell’acqua si fosse staccata come una pellicola, per incollarsi al soffitto del magazzino. Sono rimasto così, a testa in su, per parecchio tempo a guardare. Potevo vedere le minuscole increspature dell’acqua, le incavature prodotte sulla tensione superficiale da un fuscello, un insetto morto galleggiante, una foglia persa da un albero o da un’alga, un pezzettino di carta, una briciola.
Era una radiografia, ma non della parte occulta di un corpo o di un oggetto: era la radiografia della superficie. E soprattutto, potevo constatare che quei dettagli si muovevano come un lento tapis roulant, scorrevano da un lato all’altro del rettangolo, corrispondente al contorno della finestra. Era la marea in movimento. È stato così che ho contemplato davvero per la prima volta la natura dell’onda piatta, la sua lenta ma incessante fluttuazione.
Da Catalogo delle onde, foto di Anna Zemella, Wetlands, 2024
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