La mia vita quando vado a spasso si divide in due parti che ho sempre trovato facile distinguere: le volte in cui sono in giro insieme a qualcuno (specialmente se è un uomo) e le volte in cui sono da sola. Quando sono con un uomo la mia esperienza non presenta differenze sostanziali rispetto a quella che credo sia l’esperienza generale di un uomo. Vivere, girare. Il fatto che io sia una donna non produce variazioni che posso notare. Quando esco da sola, invece, la mia esperienza può essere uguale a quella di un uomo, vivere, girare, ma può anche essere diversa. Direi che è perlopiù uguale. Ma ogni tanto no. Dipende.

Sguardi

Se non incontro nessuno, è uguale. C’è un’universalità nella solitudine. E anche se incontro una donna non cambia nulla, o almeno non mi è mai capitato di registrare un cambiamento di esperienza. Se incontro un uomo, invece, la mia esperienza può assumere certe connotazioni. Talvolta, cioè, un uomo reagisce in qualche modo al mio passaggio: una sottolineatura della mia presenza fisica nel mondo.

Di conseguenza mi trovo a prendere atto del fatto che esisto, quando invece me lo ero scordato per un attimo, visto che camminare per me significa smettere per un po’ di pensare alla mia esistenza, appunto, per occuparmi del resto, di quel che vedo. Mi piace provare a essere un occhio che registra. E non sono molto legata all’idea di avere un’identità, credo che liberarsi di sé, quando si può, sia interessante. Perciò la reazione dell’uomo che mi vede va a interferire con qualcosa che cercavo di fare: dimenticarmi di me. Ma si potrebbe dire che questa è la natura dello stare nel mondo, essere continuamente disturbati e distolti dai propri propositi.

Non tutte le eventuali reazioni maschili “al mio passaggio” (lo metto fra virgolette, adesso, perché inizia a far ridere) sono uguali. Talvolta l’uomo reagisce in maniera appena percettibile. Uno sguardo istintivo, ai limiti dell’involontario, che dura qualche attimo di più. Non c’è l’intento di coinvolgermi, di rendermi partecipe di una situazione. Posso solo pensare di far parte, per un istante, di una fantasia.

Tutti prima o poi siamo parte di mondi immaginari che non potremo mai conoscere e che non per forza vorremmo abitare. Entriamo come figure nella mente di qualcuno, facciamo una breve scampagnata a nostra insaputa, ci succedono delle cose che non sapremo mai, usciamo. Nulla di male, anzi non si tratta neppure di stabilire se sia un male o un bene. Forse è addirittura interessante.

Altre volte l’uomo invece mi guarda apertamente, sapendo di essere notato e senza finzioni. Mi osserva. E magari mi parla, dicendomi qualcosa che lui considera – ipotizzo – un complimento. Se mi parla, di solito il tono è quello di chi si aspetta di ricevere una risposta: esiste in questo caso l’intento chiaro di coinvolgermi. Allora qualsiasi gesto io faccia, anche la scelta di non rispondere, il far finta di nulla, passando oltre, rappresenta in realtà una replica. Dalla passeggiata in cui cerco di dimenticarmi della mia identità mi trovo catapultata in una conversazione. Sono contenta? In fondo la domanda credo sia questa. Qualcuno dirà: come mai è proprio questa? Lo è perché i complimenti si fanno per rendere contento chi li riceve. Hanno l’obiettivo fondamentale di far piacere.

Una questione di desiderio

Partiamo dal presupposto che l’uomo che mi vede per strada e mi dice qualcosa sia guidato dal desiderio. Non si tratta di un’ipotesi scontata, in realtà l’uomo potrebbe voler esprimere altro, potremmo interpretare il suo comportamento come una forma di esercizio del potere sulle passeggiate altrui. Un’interferenza voluta, una maleducazione, una violenza, persino. Ma ipotizziamo che non sia così, anche perché se lo ipotizzassimo il ragionamento si chiuderebbe in fretta. Facciamo che il desiderio è il motivo di tutto.2

Fin da giovanissimi sappiamo che può capitare di incontrare una persona che troviamo attraente. Nel senso di desiderabile. Tanto o poco, non sempre dev’essere qualcosa di travolgente, può anche essere un piccolo pensiero. Una persona che ci provoca una sorta di imbarazzo. E impariamo presto che l’imbarazzo c’entra col fatto che questa persona “la vogliamo”, qualsiasi cosa significhi volere. E non è che il volere, in questo caso, abbia molte possibilità di essere ingabbiato. Il desiderio non si impara, abita dentro di noi, è una potenzialità dello spirito. Esce da noi a caso ed è caratterizzato dall’ingovernabilità. Persone diverse hanno desideri diversi, intensità di desiderio diverse. C’è chi desidera più fortemente e chi riesce a distaccarsi. Tutte inclinazioni dello spirito che non si possono tanto cambiare.

Un’altra cosa che impariamo presto è una sorta di pudore che proviamo subito dopo aver scoperto che proviamo desiderio. Sappiamo, quasi istintivamente, che se vediamo una persona per la prima volta non possiamo presentarci da lei e dirle che la vogliamo, non così, non su due piedi. È quasi certamente una strategia fallimentare. Qualcuno dirà che con le app di dating invece si può, ma nel caso delle app di dating si è lì apposta per quello, non stiamo passeggiando per strada, ci si iscrive, entrambe le parti sono a conoscenza degli obiettivi.

Fin dalle scuole medie, direi, impariamo a muoverci nelle situazioni in cui non c’è un’ovvia simmetria di intenti. Ci piace qualcuno, ma non sappiamo se quella persona ci trova gradevoli, e abbiamo un gran daffare: «Mi piace uno, lo dico alle amiche, le amiche mi dicono come devo dirglielo, si contatta un amico di quello che mi piace e si va da lui e gli si dice di dirlo…», eccetera. Crescendo questo schema infantile migliora, si affina, diventa meno macchinoso. Non siamo infatti nel campo del desiderio, dell’ingovernabile. Il desiderio è stato sùbito coperto dal pudore, si diceva, e il pudore ci ha fatto scoprire l’importanza della seduzione. La seduzione che, a differenza del desiderio, si impara eccome. Tant’è vero che è un’arte.

Come tutte le arti prevede che esista un talento naturale, e chi lo possiede sarà avvantaggiato nell’apprendere, ma comunque anche se si ha talento si deve passare attraverso l’esperienza e una certa applicazione. Il punto è che se vogliamo qualcuno sappiamo che non dobbiamo fare leva sul desiderio grezzo (almeno non sùbito), ma sulla seduzione. Questo è un passaggio fondamentale della nostra educazione alla sensualità o come volete chiamarla. Un passaggio che sperimentiamo tutti, ed è difficile. (Da questa difficoltà discende il successo delle app di dating, che semplificano e che prima non esistevano. Ma non divaghiamo).

La sciatteria del desiderio

Tornando alla passeggiata. Ci sono io che cammino, c’è un uomo sconosciuto che quasi certamente non mi ha mai vista in vita sua e che di colpo mi lancia delle parole. Queste parole, in sé, e parlo di significato, c’entrerebbero con il desiderio, ma in qualche modo stonano. Perché stonano? Perché dal punto di vista della seduzione non funziona.

A meno di non ipotizzare che l’uomo abbia saltato tutte le scuole, e soprattutto le importantissime scuole medie, come fa a non sapere che non si fa così? Come fa a non sapere che sbaglia tutto? Non sa che non c’è nulla di seduttivo in quello che fa? Naturalmente lo sa, perché lo sanno tutti.

Viene da concludere, dunque, che non sta cercando di sedurmi. Posso anche continuare a ipotizzare che sia motivato dal desiderio, e non dalla mera voglia di infastidire, ma sceglie di non fare nulla per vestire questo suo desiderio e trasformarlo in un dono, anche piccolo. Siamo nell’ambito della sciatteria del desiderio, si gioca con un materiale delicatissimo e lo si tratta con noncuranza. Di fatto lo si butta via. E io potrei tirare dritto, ma non sono brava a tirare dritto, quindi rispondo con una smorfia. Lui si innervosisce. Può anche innervosirsi molto. Alcuni penseranno che tutto questo non ha importanza.

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