C’è una scena in Anna Karenina di Lev Tolstoj. Kitty, giovane donna a cui Anna ha strappato dolorosamente il cuore di Vronksy minandone la sanità mentale, ha finalmente accettato un amore felice, adorante, Lévin. Lévin la ama da sempre e farebbe di tutto per lei. Kitty aspetta suo figlio, così come deve essere, e così come deve essere arriva il giorno del parto.

E qui arriva la scena. Uno strappo nella pagina per tutte le volte che l’ho riletta e che ho voluto declamarla ad alta voce. Il bambino è appena nato, è vivo, Lévin, pervaso di gioia, singhiozza al capezzale della moglie, e Kitty incredula chiede – anzi non è lei a chiedere, ma «la voce di Kitty» – «È vero?». In questo «È vero» c’è tutto: è vero che è nato mio figlio, che è vivo, che sono madre. È vero. La realtà è vera.

Allora: «In mezzo al silenzio, come una risposta indubitabile alla domanda della madre, si sentì una voce affatto diversa da tutte le voci che parlavano trattenutamente nella stanza. Era il grido ardito, temerario, che non voleva tener conto di nulla, d’un nuovo essere umano, che non si capiva donde fosse apparso.

Prima, se avessero detto a Lévin che Kitty era morta e che lui era morto insieme con lei, e che avevan per bambini gli angioli, e che Dio era lì dinanzi a loro, non si sarebbe stupito di nulla; ma adesso, tornato nel mondo della realtà, faceva dei grandi sforzi di pensiero per capire che ella era viva, sana e che l’essere che strideva in modo così disperato era suo figlio. Kitty era viva, le sofferenze eran finite. Ed egli era inesprimibilmente felice.

Questo lo capiva e ne era pienamente felice. Ma il bambino? Donde veniva, perché, chi era?... Egli non poteva in nessun modo abituarsi a questo pensiero».

Fiammelle

Per Tolstoj, le persone sono “fiammelle”; quella del figlio di Kitty («come una fiammella sopra una lampada, oscillava la vita d’un essere umano che prima non c’era mai stato»), quella di Anna che muore col suo suicidio: «E la candela con la quale ella leggeva il libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, s’infiammò d’una luce più vivida che non mai, le illuminò tutto quello che prima era nelle tenebre, scoppiettò, cominciò a oscurarsi e si spense per sempre».

Fiammelle, neonati che urlano grida ardite e temerarie ed egoiste squarciando il silenzio, e che da dove vengono? Forse dal buio dello spazio, forse dal buio galattico del pensiero, fiammelle, donne che si spengono sotto il peso della colpa, della vergogna, della solitudine.

Io ho sempre creduto che quest’urlo (Lévin pensa che «nel tempo infinito, nell’infinità della materia, nello spazio infinito vien fuori la bollicina d’un organismo, e questa bollicina si tiene un po’ su e scoppia, e questa bollicina sono io»), io ho sempre pensato che quest’urlo, questa fiamma, questa bollicina sono l’intelligenza dei personaggi tolstojani e, siccome i libri sono la realtà, sono la nostra intelligenza. E cos’è l’intelligenza se non l’atomo ultimo, infuocato, della nostra essenza?

Il colloquio

Avrò nove anni e mezzo. La suora sta dicendo a mia madre che la mia non è certamente un’intelligenza matematica, non è un’intelligenza pratica, e nemmeno logica.

In poche parole, vuole dirle che questa bambina pasticciona, incapace di colorare nei margini, di rifarsi la cartella senza buttare dentro tutto a casaccio, di far di conto appena si richiede qualcosa di più di un due più due, questa bambina assolutamente priva di senso di orientamento, che si perde per le scale della scuola dove ha praticamente vissuto per quasi cinque anni, questa bambina che a casa non apparecchia nemmeno la tavola e che non è in grado di tenere ordinata la sua stanza, figurarsi svitare un tappo o una vite, questa bambina è quantomeno in dubbio che saprà come vivere.

Io sto lì, con la mia faccia grossa, il mio labbro sempre sbucciato perché non ho nemmeno il senso dell’equilibrio (non ho l’intelligenza equilibrista), i miei occhi nocciola e i miei capelli scuri, col grembiulino d’ordinanza che stamattina era immacolato ma che io d’ordinanza ho sporcato in tutti i modi (focaccia, colori, penne, olio) a pensare.

Da dove

Forse ho la manina nella mano di mia madre. E lei, che è profondamente dotata di intelligenza matematica, senso dell’orientamento, capacità di ordine fisico e mentale, pulizia, diligenza, forse pensa di me, come Lévin di suo figlio: da dove viene? Perché? Chi è?

Mamma, quella manina me la tieni stretta anche se non sono intelligente come vuoi tu?

Alla fine il ricordo è ciò che noi creiamo. Me la tiene stretta, o no?

Sono nata urlando in una notte di novembre. Da dove venivo? Veramente da mio padre, da mia madre?

Come bollicine, per caso, nell’infinità della materia, viviamo questi anni, questo flash di decenni, cercando di imparare l’intelligenza necessaria a vivere. E come fiammelle siamo deboli, ma, dio, quanto siamo tenaci.

E come domande (quella per eccellenza di Kitty: «È vero?») fluttuiamo nel buio galattico, ci accendiamo in sprazzi che sembrano coraggiosissimi, ci affievoliamo e siamo tutti una bambina con la faccia grossa, gli occhi grandi, il labbro sbucciato, che fa di tutto per cercare d’imparare come si usa questa cosa tutta stracciata e infuocata che ci hanno messo in mano senza darci le istruzioni quando siamo venuti al mondo, stringendo con la manina la mano della mamma. Oppure no: libera.

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