Tra i grandi libri di cui ricorrono i cent’anni (il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, la Psicologia delle masse e analisi dell’io di Freud e chissà quanti altri), andrà incluso anche uno che gettò una luce nuova sulla natura del linguaggio e i suoi legami con la cultura. Parlo di Language di Edward Sapir (Il Linguaggio, in italiano da Einaudi già nel 1969), uscito a New York nel 1921, da allora trattato come un classico (ancora pienamente leggibile) e considerato da molti, me compreso, uno dei migliori lavori complessivi mai scritti su quel tema.

Benché fosse opera di un giovane (Sapir era nato nel 1884), il libro rivelava una straordinaria ampiezza di vedute, anche per la gran varietà delle lingue considerate, e pullulava di idee nuove. Sapir disponeva di una prodigiosa conoscenza delle lingue e culture amerindiane.

Aveva studiato sul campo gli indiani wishram dello stato di Washington, i takelma (Oregon), gli yana (California), i paiute (costa del Pacifico) e altri ancora. Per questo nel suo libro poté permettersi un’operazione impossibile in Europa: accostare senza imbarazzo lingue lontanissime e senza legami tra loro come il greco antico e lo yana o il latino e lo hausa (Columbia Britannica). Confronti simili, che gli permettevano di estrarre potenti principi generali, non erano stati mai proposti. Si può immaginare che effetto avrebbero potuto fare in Europa, dove le comparazioni tra lingue (alla base di classici come il Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure, 1916) non si spingevano fuori dell’area indoeuropea. In un’epoca di recupero delle culture oppresse, Sapir dovrebbe brillare come uno degli antesignani della difesa delle culture native e dei loro più coraggiosi esploratori.

L’idea centrale di Sapir era che le lingue sono sistemi in cui un insieme di suoni è fatto per esprimere un catalogo ben definito di “concetti”: quelli concreti (entità, oggetti), quelli relazionali (relazioni, eventi), quelli funzionali (soggetto, predicato, ecc.) e altri. Le lingue si distinguono per il modo in cui esprimono questi concetti, scegliendo tra i pochi modi disponibili.

Su questa base propose un metodo per la classificazione linguistica, che applicò per la prima volta agli idiomi amerindiani e che fa da base alla moderna tipologia linguistica (lo studio delle somiglianze e differenze tra le lingue indipendentemente dalla loro parentela genetica).

Il libro di Sapir può esser visto anche come chiave di accesso all’eccezionale hub intellettuale e scientifico newyorchese di cui Sapir fece parte, probabilmente uno degli ambienti culturali più vivi del secolo scorso, paragonabile al gruppo di Bloomsbury cui facevano capo Virginia Woolf, John M. Keynes e altri. Ebreo della Pomerania, emigrato da bambino con la famiglia a New York (la fuga scatenata dai pogrom zaristi aveva prodotto una tale diaspora che nel 1925 si contavano quattro milioni di esuli), Sapir si distinse subito per l’eccezionale talento e, sostenendosi solo con borse di studio, riuscì a ottenere il dottorato in linguistica alla Columbia University.

Originariamente germanista, si occupò di lingue classiche, di storia delle religioni, di psichiatria, di musica (era un fine pianista) e infine si avvicinò alle lingue e alle culture dei nativi americani seguendo i corsi di un altro profugo ebreo tedesco, Franz Boas. I corsi di Boas dovevano essere fuori del comune, visto che furono la fucina di figure come Margaret Mead, Ruth Benedict, Alfred L. Kroeber (padre più tardi della scrittrice Ursula Le Guin), Melville J. Herskovits (l’autore del Mito del passato negro, 1941) e tanti altri.

Relativismo culturale

Boas s’era stabilito negli Stati Uniti nel 1887 quasi ventenne, dopo aver compiuto, partendo dalla Germania, un’ardita spedizione presso gli eschimesi dell’isola di Baffin per studiare gli effetti dell’ambiente fisico sulla società. Una volta a New York, gli si era aperta una formidabile carriera: prima curatore della sezione antropologica dell’American Museum of Natural History, poi professore di antropologia alla Columbia University, dove rimase per quarant’anni.

A lui si deve la prima ricognizione generale delle lingue e delle culture indiane d’America, a cui attese con instancabile energia. In questo quadro, non solo formulò teorie generali, come quella (oggi celeberrima e ancora discussa) del “relativismo culturale” e dell’interazione tra cultura e cognizione, ma scoprì anche fenomeni culturali ignoti, come il potlach dei kwakiutl della Columbia Britannica, il dono scambievole a incremento continuo, che finisce per portare alla rovina donatore e donatario.

A lui, tedesco di nascita e di formazione, toccò il destino unico di essere il primo esploratore sistematico delle lingue e delle culture dei nativi americani (a cui dedicò nel 1911 il grande trattato collettivo Handbook of American Indian Languages, tuttora ristampato), di creare più generazioni di ricercatori di valore eccezionale e di gettare insieme a loro le basi dell’antropologia e della linguistica moderna. Un altro tratto forte del gruppo, rarissimo nella ricerca degli anni Venti, era la folta presenza di donne – e che donne!

Tra loro c’era Margaret Mead, l’antropologa che dedicò più opere alla sessualità come fattore della cultura e che, con una miriade di interventi pubblici, arrivò a influenzare i movimenti di “rivoluzione sessuale” degli anni Sessanta e a porre tra le prima la questione del genere. Un’altra era Ruth Benedict, l’autrice del Crisantemo e la Spada (1946), indagine sulla cultura giapponese (commissionata dall’esercito in vista del conflitto col Sol Levante), che caratterizzò come “cultura della vergogna” in opposizione alle “culture della colpa” (come quella giudaico-cristiana).

«Preferiva la poligamia»

Per queste due donne speciali Boas ebbe una predilezione, che si manifestò però in forma ossessiva: Ruth Benedict rimase per tutta la vita sotto il suo controllo (pur tenendo in pugno le redini organizzative del gruppo), Margaret Mead gli sfuggì con l’astuzia, per dedicarsi a viaggi ed esplorazioni spericolate (siamo tra gli anni Venti e Trenta) di culture remotissime (isole Samoa, Bali), in solitaria, in coppia e in altre più complesse configurazioni.

Siccome la scienza non va mai disgiunta dall’umano, nel gruppo si svilupparono fitti reticoli di polemiche e intese, e soprattutto amorosi, in cui l’elemento più attivo era Mead. Il povero Edward, rimasto vedovo, arrivò a spedirle la fede della moglie in segno di fedeltà, ma Mead rifiutò dono e affetto dichiarando che «preferiva la poligamia» (che in effetti praticava senza risparmio, come racconta lei stessa nella sua autobiografia L’inverno delle more, 1972). Altri grandi talenti, come Gregory Bateson, che aveva incontrato in uno dei suoi viaggi nel Pacifico e che aveva sposato, tempestosamente entrarono e uscirono dalla sua vita. Sapir aveva uno straordinario fascino umano, testimoniato da amici e allievi.

Qualche anno dopo la sua morte (nel 1937), Roman Jakobson, un altro profugo di grandi doti, lo commemorò citando «il triste verbo della lingua kwakiutl wibalisem “perire senza raggiungere il fine”». Per la varietà di scenari, di relazioni intellettuali e amorose e di colpi di scena che contiene, la storia di Sapir, di Boas e di quel gruppo potrebbe essere il soggetto di un gran serial televisivo. La racconta intanto con mano maestra Charles King nel suo La riscoperta dell’umanità (Einaudi 2019).

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