Una ricerca su Google con le parole chiave “quantum dot” produce come primo risultato un video intitolato Quantum Dots e controllo dell’umanità. A destra fa timidamente capolino il familiare box di Wikipedia dove però, per capire anche solo vagamente di cosa si sta parlando, ci si deve perdere in un labirinto di altre pagine: cos’è un semiconduttore? Cos’è una nanostruttura? Cosa significa avere una banda proibita?

Cliccando invece sul link del video, più accattivante, ci si trova davanti a una quarantina di minuti di una trasmissione di un noto canale dedicato alla “controinformazione” a dir poco controverso, famoso per aver abbracciato e promosso una grandissima varietà di teorie del complotto: da quelle solo un po’ ridicole, come la “teoria” della terra cava, ad altre decisamente più pericolose e ignobili, come la cura del cancro con iniezioni di bicarbonato.

Nel video, insieme al conduttore, interviene per primo un fisico di cui ci vengono subito dichiarate tutte le credenziali accademiche (perché, a quanto pare, nemmeno i cospirazionisti sono immuni al fascino discreto delle competenze). Lo scienziato, che vanta di avere un’esperienza diretta con i quantum dot, procede a una descrizione molto vaga, ma a grandi linee corretta, di questa nanotecnologia: ci dice che si tratta di particelle cristalline fluorescenti capaci di emettere fotoni, che sono fatte di cadmio o altri metalli pesanti, a volte di grafene.

Ma cosa c’entrano allora i quantum dot con il controllo dell’umanità? «Facciamo un attimo i complottisti», esorta il conduttore in un paradossale momento di autocoscienza: se qualche tecnocrate malintenzionato volesse utilizzare i quantum dot per attuare un piano di controllo globale del genere umano, che cosa potrebbe succedere?

Il colpevole, come il maggiordomo nei gialli dozzinali, è quasi sempre lo stesso. Questa particolare fantasia di complotto, infatti, prende ispirazione da un’iniziativa della fondazione di Bill e Melinda Gates che, nel 2019, ha finanziato un progetto di ricerca del Mit indirizzato allo sviluppo di un dispositivo nanotecnologico capace di somministrare vaccini e, allo stesso tempo, tenerne una traccia in situ depositando una piccola quantità di quantum dot come marker specifici di ciascun farmaco inoculato.

I quantum dot sono piccolissimi cristalli di dimensioni nanometriche formati da materiali semiconduttori, che diventano cioè conduttivi soltanto a patto che agli elettroni degli atomi che li compongono venga fornita sufficiente energia. Quando ciò avviene, gli elettroni “saltano” in quella che in scienza dei materiali è chiamata “banda di conduzione”: uno stato che permette agli elettroni più energetici di allontanarsi dai loro nuclei atomici e muoversi liberamente attraverso il materiale. Ritornando al loro stato di partenza, gli elettroni possono emettere l’energia acquisita sottoforma di luce, producendo un effetto di fluorescenza.

Si tratta di una proprietà che li rende particolarmente promettenti nella ricerca biomedica: mentre i farmaci tradizionali fanno perdere le loro tracce subito dopo l’assunzione, i quantum dot possono permetterci di continuare a scambiare informazioni con le sostanze che introduciamo nei nostri corpi, per capire dove, quando e in che modo interagiscono con noi. Nel caso del dispositivo del Mit, i quantum dot verrebbero usati come “tatuaggi intelligenti” capaci di codificare la nostra storia vaccinale direttamente sui nostri corpi, rendendola sempre accessibile anche da un semplice smartphone.

In questa ricerca scientifica, in effetti, ci sono tutti gli ingredienti per confezionare la fantasia di complotto perfetta: i vaccini, il controllo bio-politico, Bill Gates e una certa dose di tempismo infelice. Lo stesso nome di questa nanotecnologia, che evoca un mondo misterioso fatto di punti zero-dimensionali e radiazioni elettromagnetiche, lascia largo spazio all’immaginazione. Nel video gli ospiti prendono così una strana e inverosimile tangente: secondo loro, gli elettroni potrebbero essere controllati a distanza, grazie alle loro proprietà quantistiche, trasformando i quantum dot impiantati sotto la nostra pelle in una sorta di materiale alchemico e proteiforme, capace di assumere qualsiasi caratteristica fisico-chimica desiderata dall’operatore. Chi ci impianta il quantum dot può “fare quello che vuole di noi”.

Le mistificazioni di video come questi sono già state ampiamente raccontate. Penso però che vadano studiate e prese sul serio, perché sono paure che raccontano bene la tensione lecita, e irrisolta, al cuore dei processi tecnologici in cui siamo immersi.

L’angoscia di fondo che sembra invadere il nostro immaginario davanti alla possibilità di una diffusione globale delle nanotecnologie ha a che fare con un’idea piuttosto astratta, direi quasi filosofica, e allo stesso tempo molto specifica, che potremmo riassumere nel concetto di materia programmabile. Non si tratta solo della paura che la materia che costituisce i nostri corpi possa essere controllata dall’esterno per via di processi tecnologici occulti, ma di un’idea più ampia, la possibilità di una trasmutazione, miracolosa o terrificante a seconda dei punti di vista, della materia in informazione e viceversa.

Qualche mese fa Paul Preciado, filosofo e attivista transfemminista, ha scritto che i nostri corpi, attraverso l’esperienza della pandemia, «non sono più regolati solo dal loro passaggio attraverso istituzioni disciplinari (scuola, fabbrica, caserma, ospedale)» ma da «una serie di tecnologie biomolecolari che entrano nel corpo con microprotesi e tecnologie di sorveglianza digitale». Ci troviamo così sempre più partecipi di quelle politiche di confine che, attraverso la pandemia, abbiamo iniziato a sperimentare direttamente sui nostri corpi. Il confine di cui parla Preciado è anche il confine tra le nostre mura domestiche e il mondo esterno, il confine tra i nostri polpastrelli e il touch-screen dello smartphone, il confine tra le membrane delle nostre cellule e le nanoparticelle del virus. Ci riscopriamo, improvvisamente, fatti di sole superfici: molto più evanescenti e permeabili di quanto avessimo previsto.

Negli ultimi anni, l’improvvisa, diffusa promiscuità dell’essere umano con la nanotecnologia, che si tratti di quella naturale del virus o di quella artificiale dei vaccini, ci ha colti impreparati. Questo sommovimento scientifico e culturale, da cui nessuno di noi può dirsi del tutto immune, mi ha fatto sorgere molte domande. Possiamo ancora permetterci di guardare alle nanotecnologie soltanto con uno sguardo tecnico? Quali sono i rischi di affrontarle senza gli strumenti teorici, linguistici e culturali di cui abbiamo così urgentemente bisogno?

Una buona comunicazione scientifica non è tanto una comunicazione cristallina del semplice contenuto tecnico, quanto piuttosto una riflessione politica e filosofica sulle relazioni che le nuove tecnologie intessono con noi. Esiste allora un rischio che la tecnologia trasformi i nostri corpi in materia programmabile? E siamo certi che la storia delle nostre tecnologie non nasconda le tracce di un’ambizione mai risolta di controllare la materia attraverso l’informazione?

Forse dovremmo riuscire ad ammettere che le fantasie di complotto hanno la capacità di confrontarsi con la specificità delle nostre tecnologie con più coraggio della cultura ufficiale, inclusa quella scientifica: se non iniziamo a farci le domande giuste, ci sarà sempre qualcuno che le farà al posto nostro e troverà, più o meno legittimamente, altre risposte.

Quella che siamo così frettolosi a etichettare come “sfiducia nella scienza” contiene molto spesso il seme, per quanto poco sviluppato o male espresso, di alcune domande fondamentali a cui non soltanto la scienza ha smesso di rispondere, ma che ha semplicemente trascurato di porsi. Oggi esiste una ferita profonda nella relazione dei corpi con le tecnologie; una ferita che l’esperienza della pandemia ha illuminato, e che richiede urgentemente tutta la nostra attenzione e tutta la nostra cura.

Testo in collaborazione con Il Tascabile

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