L’ultimo giorno di patriarcato non fa ridere, e sono d’accordo tutti: il comico ha perso lo smalto, non è più brillante come prima, non è irriverente, è diventato ecumenico; insomma forse anche lui ha fatto il suo corso
L’8 marzo, in quel piccolo sinedrio privato che sono i gruppi whatsapp fra amici intimi, è irrotto il video dell’ultima canzone di Checco Zalone, L’ultimo giorno di patriarcato. Fa ridere?, ci chiediamo.
No, non fa ridere, e sono d’accordo tutti: ha perso lo smalto, non è più brillante come prima, non è irriverente, è diventato ecumenico; insomma forse anche Checco Zalone ha fatto il suo corso: una maschera regionale fuori tempo massimo che in questi tempi di consumazioni culturali più veloci della luce sembra già vecchio come Arlecchino o Balanzone.
Si sa: quando si ride, si ride sempre ai danni di qualcun altro, foss’anche di sé stessi. E qui davvero non si capisce di chi o cosa si debba ridere: l’oggetto della satira di Zalone è un femminismo marziale che non è femminismo né la sua parodia, ma un contrappasso dantesco immaginato da un boomer che una femminista reale non l’ha mai incontrata né letta, un bersaglio che – esattamente come il fascismo nella serie M. Il figlio del secolo – si ha bisogno di ridurre preventivamente a macchietta per poterlo più agiatamente perculare. Non è un caso che, per far funzionare il suo sketch, Zalone debba collocarlo in un borghetto meridionale degli anni Cinquanta che sembra più un set del Padrino che una qualsiasi città italiana di oggi, dove il patriarcato certo non è morto, ma di sicuro non ha più quella forma.
Il risultato è che quel video è appena uscito ma fa l’effetto dei cinepanettoni di Neri Parenti o dei tormentoni dei Vanzina: la parodia di una cosa che non esiste più, una lanterna magica puntata in un mondo rassicurante dove anche i sistemi oppressivi erano più semplici.
Un sequel
L’ultimo giorno di patriarcato sembra il sequel della prima parte di Quo vado?, quando la madre di Zalone e la di lui fidanzata concorrevano ad onorarlo come una divinità pagana, ma per una ragione: lì Zalone era titolare di un posto fisso.
Poi arrivava la realtà: il posto fisso lo perdeva, e con quello il privilegio economico su cui da sempre si fonda il dominio del patriarca; iniziava un’odissea di delocalizzazione professionale certamente più realistica di questa scema inversione di ruoli dove vediamo Zalone che, simile a un personaggio del Bagaglino o dei Legnanesi, si veste da donna, brucia la lasagna, fa male il bucato e con atteggiamento esotico vede la moglie prendersi il toy-boy, come se sul tema non ci fossero già state almeno due (orrende) serie Netflix e una (bellissima) canzone di Ornella Vanoni con Colapesce e Dimartino.
Quo Vado? finiva con La prima repubblica, un inno generazionale che rivelava in fondo cos’era davvero quel film: un’ode al mondo perduto del welfare, dei privilegi assistenziali, della previdenza sociale, insomma l’ultima immagine di un boom che è passato e non tornerà più; faceva ridere perché metteva in commedia una transizione fra le epoche.
Quel film di Zalone era l’ultimo riuscito e forse anche l’ultimo riuscibile, essendo in fondo Zalone, come tutti i grandi attori della commedia italiana, da Sordi a Verdone, da Villaggio ad Aldo, Giovanni e Giacomo, un artista della nostalgia. Zalone ha fotografato un’Italia e ci è rimasto intrappolato dentro: l’Italia post-berlusconiana della crisi economica e della paura del terrorismo, l’Italia impoverita, (mal) europeizzata e (mal) globalizzata della disintegrazione del lavoro.
Lo schema era sempre lo stesso: un meridionale che va a Milano, un povero impiegato che penetra nell’èlite progressista, un italiano old-school nell’avanzato nord Europa, insomma il basso che incontra l’alto e lo ridicolizza, la retrovia della storia che impatta contro la sua avanguardia e ne fa emergere le contraddizioni. Quando con Tolo-Tolo ha provato a invertire lo schema – quando, insomma, spostandosi in Africa, la vittima dello scontro di classe non era più lui – doveva accorgersi che, fuori dal mito del buon selvaggio, Checco Zalone non funziona più.
Dov’è il woke
Nove anni – tanti ne sono passati da Quo Vado? – sono tanti, e il rimpianto del tempo che fu non è un sentimento capace di durare poi tanto. La vita spinge avanti e non aspetta nessuno. Nel frattempo sono venuti i nuovi: Lundini, De Carlo, Ravenna, Ferrario, Tinti, Rapone, Rossi, e persino Angelo Duro, tutti in fondo dediti a raccontare, dopo e meglio di Zalone, la stessa cosa. Ovvero la fine del privilegio sessuale, economico, sociale e intellettuale, e la sclerosi che di quel privilegio perduto è il sintomo più plateale: il “politicamente corretto”.
Solo che nel frattempo Giorgia Meloni ha vinto le elezioni, Donald Trump le ha rivinte, Marine Le Pen le vincerà, e questo tanto bistrattato woke in fondo è diventato come il complotto giudaico negli anni Trenta: un nemico inesistente proiettato a uso di chi vuole far sentire una vittima chi è stato solo superato dalla storia. L’ultimo giorno di patriarcato è cringe, nel senso più preciso del termine: non solo l’imbarazzo, ma quello specifico imbarazzo che viene da un deliberato anacronismo; è cringe ciò che è finito fuori dalla Storia e ancora non lo sa.
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