Ci sono scritture che di tanto in tanto riprendo in mano per farmi raccontare quanto il quotidiano di tutti possa essere inquietante, quanto, e bisogna esercitarsi a tenerlo a mente, «esista nell’aiutare gli altri una vaga passione omicida che è difficile contenere in un sentimento meno sanguinario».

Di tanto in tanto, insomma, rileggo Fleur Jaeggy. Perché i buoni sentimenti, soprattutto i propri, bisogna tenerli a bada. Perché la fede e la speranza, senza la carità, da san Paolo in poi, sono la cosa peggiore del mondo. Perché in una società che si racconta il bene e compie, in ogni suo decreto, il male, scavando disuguaglianze tra essere umano ed essere umano, bisogna leggere libri nei quali si capisce profondamente quanto il bene compiuto con un fine assomigli al male, e quanto l’unico modo per contrastare il male sia non compierlo, quanto sinonimo di perdonare sia capire.

Tutto ciò con un nitore (talvolta ghiacciato), con un’ironia (talvolta sinistra), con una sensualità (talvolta morbosa) che rassicura rispetto alla nostra condizione umana di vivere nell’incertezza dell’idea che ci facciamo di ogni cosa e di ogni essere umano (specialmente chi amiamo) e che essi si fanno di noi. Fraintendere e vivere sono sinonimi.

L’universo linguistico di Fleur Jaeggy

Fleur Jaeggy è una scrittrice svizzera di lingua italiana, i suoi libri sono pubblicati dalla casa editrice Adelphi. Il suo romanzo più famoso, e il primo che ho letto è I beati anni del castigo (1989), il suo ultimo libro e l’ultimo che ho letto è una raccolta di racconti intitolata Sono il fratello di XX (2014) nel quale si legge, nella prima pagina, «Una volta quando avevo otto anni, la nonna mi chiese, cosa vuoi fare da grande? E io risposi, voglio morire. Da grande voglio morire. Voglio morire presto».

Esistono luoghi linguistici, scritture, romanzi e racconti, in cui “passare” e “cambiare” sono sinonimi. Di solito, questi luoghi linguistici appartengono a ciò che definiamo perturbante. Entrare nell’universo linguistico di Fleur Jaeggy, per esempio, significa accettare sinonimie e antinomie, ossimori e antitesi che avvicinano e spesso mescolano, quantità e qualità, immanenza e trascendenza, e confondono grazie alla volontà e al desiderio, alla vendetta e all’accondiscendenza, i vivi e i trapassati.

Se il presente e il passato possono essere scambiati nella costruzione della frase, allora è giusto che i vivi e i morti possano essere scambiati nel modo in cui – chi scrive e chi legge – li pensa e li sente. Alle parole bisogna pur dare credito. Bisogna almeno fingere che somiglino abbastanza al loro significato. Al loro losco significato.

I beati anni del castigo

I beati anni del castigo racconta una vicenda di collegio, è un libro che ho letto molte volte e l’impressione che ne ho ricavato nel 1990 – lo avevo trovato in una edizione del Club degli Editori forse, nella libreria della casa dove vivevo con i miei genitori – l’impressione che ne ho ricavato allora si rinnova ogni volta che lo rileggo.

Cosa che, nel corso degli anni, è accaduta spesso. Un po’ perché rileggo, un po’ perché a dodici anni, dopo la storia di Frédérique, una delle protagoniste, ho deciso che mi sarei comportata come lei. «E ancora oggi scrivo come Frédérique, e mi dicono che ho una bella e interessante calligrafia. Non sanno quanto l’ho studiata».

Ho deciso, leggendo quel romanzo, che in me non sarebbero stati visibili i disordini, che le persone intorno avrebbero dovuto sempre ritenermi conforme, che la maschera, senza diventare il volto – questa è stata la fatica – sarebbe stata solida, affidabile, salda.

Ho preferito apparire noiosa più che ribelle, quieta più che passionale, presente più che incline alla fuga. Tutti i miei malumori, le mie intolleranze, le mie rabbie sono state intime e intimi ne sono stati i destinatari. Solo la stanchezza, talvolta, mi ha fatto deflettere senza tuttavia farmi ricredere. Infedeltà, mai tradimenti.

Il buon carattere, la giovialità, grazie a Frédérique e a Fleur Jaeggy, lungi dall’essere una grazia o il sintomo di una bontà d’animo, sono state per me una formale attestazione di buona educazione e, nei casi limite, di distanza.

Incontrare Fleur Jaeggy

La prima volta che ho parlato con Fleur Jaeggy era il marzo 2014 ed ero seduta nel suo salotto a Milano. La stanza dava su un terrazzo, il terrazzo era rigoglioso di piante almeno quanto il pavimento era rigoglioso di libri. Non sapendo cosa dire ho cominciato a descrivere – come in un tema di ritorno dalle vacanze estive, compita e noiosa – il terrazzo che avevo visto mentre aspettavo di suonare il campanello.

A un certo punto Fleur Jaeggy mi aveva interrotto, forse estenuata, e mi aveva detto: «Non mi piace quel terrazzo, è molto esposto, preferisco il mio». E con un gesto, forse solo degli occhi, mi aveva invitata ad andare sul suo terrazzo. Ero andata.

All’aria aperta, in mezzo alle piante, cercavo di guardarmi intorno senza guardare lei – come fanno i bambini, o i cani – e il mio sguardo era inciampato – come avrebbe potuto fare altrimenti – sulla Torre Velasca.

Con un lieve accento romano, o così mi si è fissato nel ricordo, avevo detto «ammazza come si vede vicina la Torre Velasca», e mi ero voltata stupita verso il suo volto che, in quel momento, mi pareva irraggiato come in certe rappresentazioni della Pentecoste. Lei, senza scomporsi, mi aveva chiesto, «le piace?», E io, come parlassi di un cioccolatino avevo fatto sì con la testa, e lei, sempre più lambita dai raggi del sole, e accennando un passo per rientrare aveva detto, «le piace, sì?, sa che la gente ci sale per buttarsi di sotto».

Come Frédérique, de I beati anni del castigo, ho desiderato sempre e solo essere libera, libera in una maniera ancora piuttosto infantile, fare quello che mi pare quando mi pare, non cedere a controllo o verifica, nemmeno, e forse soprattutto, di persone che ho amato o dalle quali sono stata amata.

Storie di famiglia

Le storie di Fleur Jaeggy, che esse vengano in guisa di romanzo o racconto, sono storie di famiglia. Solo che le famiglie ordinarie – in senso statistico – non ci sono, i genitori sono sostituiti da nutrici, maggiordomi, tutori, insegnanti, sovente compaiono padri vedovi.

Sono famiglie in cui il legame di sangue è posposto a un legame di elezione che, sempre, rivela la propria natura di dedizione. Con i difetti metrici che la dedizione conduce con sé, l’ossessione e la persecuzione (avvicinamento), la separazione (allontanamento), la coesistenza di ossessione, persecuzione e separazione.

L’unica eccezione di sangue sono i fratelli che tuttavia, anche quando entrambi viventi e statisticamente in buona salute (sono giovani), tentano di appropriarsi l’uno dell’altro. Tutto ciò che è necessario, anche il possesso, non è bene né male, è e come tale non va giudicato.

Il bene e il male, come le colline, i laghi o le architetture, come altri esseri umani incontrati per volontà o caso, sono una forma di paesaggio, preesistono a chi racconta.

Le cose e le persone che esistono sono salve perché già sopravvissute, le cose e le persone che esistono sono felici, in quanto hanno assunto una forma il cui destino – la consunzione – è segnato e dunque, essendo conosciuto, è innocente e perdonato. Nel momento in cui siamo, sappiamo anche come andrà a finire. Nella narrativa di Fleur Jaeggy felicità ed esistenza sono sinonimi. Con tutto ciò che ne consegue.

In Sono il fratello di XX si racconta la storia di una ragazza, elegante e affascinante che, forse ossessionata dall’idea di diventare (qualcosa in più o qualcosa in meno di quello che si è, chiosa Jaeggy), si appropria della vita del fratello, diventa la scrittrice di una vita alla quale ha solo assistito, ma che ha avuto l’intenzione di rubare. In questa casa ci sono i genitori, ma l’unico testimone educativo passato ai figli è stato l’utilizzo massiccio dei sonniferi.

Ne L’erede, altro racconto, un fratello aspetta che i due fratellini gemelli morti nel ghiaccio, si stacchino dal quadro e lo ammazzino.

Il rapporto di continuità di sangue, nei personaggi di Fleur Jaeggy, non è verticale, ma orizzontale. Questa rotazione cartesiana da genitore-figlio a figlio-figlio trasforma immediatamente i rapporti di autorità ricevuta in rapporti di autorità ricercata, ristabilita, ricontrattata.

Jane e Rachel – L’angelo custode, romanzo, 1971 – che non sono gemelle ma si somigliano come gocce d’acqua di differente diametro, si rinfacciano l’un l’altra di essere una statua.

La statua, il simulacro, è ciò che può essere sostituito con l’umano. Se persona è la maschera che mima l’umano e dalla quale escono i suoni, le per-sonae di Fleur Jaeggy arrivano al lettore col corpo tutto – statue intatte – e dunque da esse escono non solo suoni ma gesti. Le statue di Fleur Jaeggy sono corpi maschera dalle quali escono gesti.

La narrativa di famiglia elettiva di Fleur Jaeggy è infatti una narrativa sensuale, conturbante, tattile. Una specie di casta promiscuità. Si sentono i respiri. Romanzi di famiglia dove la famiglia non c’è.

Protagonisti del racconto di Fleur Jaeggy sono i bambini. Jaeggy scrive di infanzia perché l’infanzia è il mondo prima che la tenerezza lo rischiari. Non c’è tenerezza nell’infanzia, così come non c’è tenerezza nel mito. Se tutto ciò che viene a noi per eredità naturale è proprietà dei morti, allora è giusto che i personaggi di Fleur Jaeggy, orfani, si costruiscano, da capo, un’eredità di esseri umani vivi.

I sentimenti come gesti

Non è scorretto, mi pare, definire letteratura dell’orrore il racconto di una quotidianità commista a elementi di carattere soprannaturale, surreale e non razionale. Il racconto di una quotidianità che ben lungi dall’essere rassicurante e ripetitiva, dunque predicibile, si rivela improvvisamente oscura, sconosciuta, soprattutto animata.

Dalle porte che si aprono, agli oggetti che si spostano, fino a Stephen King. Se non ci fossero delle eccezioni, perché guardare ciò che ci circonda?

Un esempio. La lingua de Le statue d’acqua procede per coppie di termini che rimandano a incisioni di fisiognomica – «tersa e odiosa» (la tranquillità), «gaio e torvo» (lo stupore), «cerimoniosa e letargica» (la confidenza), «eroico e malinconico» (l’innamoramento), «umile e pesante» (la sconfitta) – e rendono la penna di Jaeggy tagliente perché esatta.

E con questa esattezza, Jaeggy misura l’intransigenza dei suoi personaggi, e di chi legge, nel rifiutare di essere meno felici – e meno infelici – di quanto siano stati la prima volta che il loro volto ha sostenuto una determinata espressione.

I sentimenti (espressi da umani o da statue) sono gesti, perciò possono essere rappresentati, presuppongono se non un corpo, un arto, e perciò possono rompersi o corrompersi, e perciò possono accavallarsi e stringersi.

I sentimenti umani che non corrispondono a gesti, rivelano la loro natura cancerosa, come è cancerosa la natura di tutti coloro il cui unico muscolo in grado di sostenere uno sforzo sia il cuore. Tra l’altro vorrei dire subito che le persone sensibili sono distratte. A loro non importa assolutamente niente degli altri. Le persone sensibili, o tanto sensibili da essere dichiarate sensibili, come se fosse una gran qualità, sono insensibili ai dolori degli altri.

Chi vuole il cuore di una persona amata? Ne si desiderano le mani. Chi vuole il cuore di una persona odiata? Ne si desidera la testa.

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