Mi sto annoiando, chiedimi qualcosa. Quante volte abbiamo visto questa frase, accompagnata da un selfie o da un box, comparire nelle storie di Instagram, risvegliando il fascino eterno delle domande anonime?

Chiedere quello che si vuole senza svelare l’identità, senza nessuna vergogna. Non importa che sia la ragazza o il ragazzo più popolare della scuola, la persona con cui non avrei mai il coraggio di parlare, un influencer o l’artista preferita: posso inviare la domanda e sperare che scelga di rispondere e pubblicarla, facendomi brillare della sua luce riflessa.

Immobili davanti allo schermo, ci troviamo esattamente nello stesso punto in cui nel 2010 ci sorprendeva Ask.fm – primo social basato sulle domande, acronimo di ask for me: chiedi di me – un attimo prima che la popolarità digitale diventasse un lavoro.

Quindici anni, un’èra tecnologica fa: gli albori di Instagram, Chiara Ferragni semi sconosciuta, l’intelligenza artificiale lontana dalle nostre vite.

Oggi, mentre le domande anonime continuano a spopolare sulle storie e i giovanissimi le condividono sullo stato di Whatsapp, viene da chiedersi se ancora esiste un confine, qualcosa che resta privato o se tutte insieme – persone famose e non, senza più differenza – facciamo parte del più grande show mai esistito, dove, nel rincorrere una narrazione a caccia di like, rinunciamo alla nostra identità, perdendoci nel desiderio di essere come tutti (quelli famosi).

Spazi (in)sicuri sul web

I social sono ingannevoli: la velocità e facilità di interazione annulla la distanza tra noi e le vite degli altri. L’opzione domande di Instagram arriva nel 2018 e consente di farsi inviare quesiti senza però garantire completamente l’anonimato.

Per quello si dovrà attendere il 2020, con app come Ngl  – Not Gonna Lie – che consente di creare un profilo esterno con link da condividere nelle storie e che offre un anonimato totale, facendo arrivare le domande in un inbox e consentendo di condividerle direttamente, insieme alla risposta, senza sapere chi l’ha inviata. Un modo per interagire in maniera diretta con i follower, rispondere a curiosità o approfondire temi e questioni specifiche con – come sempre accade nel web – momenti di grande condivisione e intelligenza e altri di volgarità e violenza verbale.

Oggi, l’hate speech è un problema strutturale, soprattutto per alcune categorie specifiche, come spiega Il barometro dell’odio 2024 di Amnesty International: migranti, donne, comunità lgbtqi+. La ricerca, che per questa edizione presenta un focus sulla delegittimazione del dissenso, offre un dato importante: è il mondo dell’attivismo a detenere il triste primato di incidenza di discorsi d’odio nei commenti.

Confrontando Facebook e X, si scopre che quest’ultimo raddoppia la percentuale di commenti offensivo-discriminatori rispetto al primo (11,9 per cento contro 21,1 per cento) e non possiamo dire che la cosa ci stupisca. Polarizzazione, algoritmo, moderazione inesistente rendono il web uno spazio non sicuro da attraversare ma a volte si tende a pensarlo come indipendente da chi lo agisce, che sono i milioni di utenti dietro altrettanti schermi sparsi per il mondo. Non è solo colpa di internet se siamo diventati esseri umani peggiori, ma anche nostra.

La profezia di Ask.fm

Ask.fm, il social pioniere delle domande anonime, nasce nel 2010 e diventa subito famoso tra gli adolescenti, ai quali regala dal nulla una popolarità difficile da gestire: centinaia di domande al giorno, da come pompare i muscoli ai consigli sulla dieta per avere un fisico perfetto, fino a quesiti più personali come «perché la tua ragazza fuori da scuola parlava con quel tipo?» e «cosa ci facevi con quella ragazza se sei fidanzato?».

Un po’ come in Gossip Girl, serie tv cult degli anni Dieci dove un sito web di pettegolezzi racconta le vite delle élite di Manhattan: nella finzione, come nella vita reale, sono le centinaia di messaggi anonimi a svelare tradimenti e nuovi amori. Il social in poco tempo diventa tristemente famoso come spazio di cyberbullismo e violenza: a Bologna, nel 2013, 250 ragazzi tra i 14 e i 18 anni si danno appuntamento ai Giardini Margherita per una maxi rissa tra bolobene e bolofeccia – il conflitto sociale in chiave contemporanea –, dopo una pioggia di insulti e sfide sui vari profili mentre, nel 2014, il suicidio di una 14enne viene legato ai commenti trovati sul suo profilo, creando un prima e un dopo.

La relazione tra social network e adolescenza finisce sotto i riflettori, rendendoci consapevoli di un passaggio epocale: l’io da soggetto si trasforma in oggetto fine a sé stesso, il cui scopo ultimo è raggiungere la visibilità.

Dieci anni fa ci spaventava l’idea che un ragazzino di 14 anni dichiarasse con sicurezza «se non sei popolare, non sei nessuno» mentre oggi esistono manuali per diventare influencer, like e nuovi follower stimolano le endorfine più di una barretta di cioccolato e i Baustelle in Spogliami cantano «mascherare il vuoto che si ha, con algoritmi e pose (…) Spogliami dei filtri, del cinismo, dei cosmetici» confermando che la vita intima e sociale non può più fare a meno del digitale. Ask.fm chiude il 1 dicembre 2024 ma il suo spirito continua a vagare in tutti i social.

Lo stato di Whatsapp

Ho sempre pensato fossero i boomer gli unici a caricare contenuti sullo stato di Whatsapp ma questa mia (irragionevole, evidentemente) certezza è crollata il giorno in cui mi arriva la richiesta di approvazione per scaricare un’app sullo smartphone di mia figlia, che va alle medie.

Per capire che cos’è la devo googolare e scopro che serve a generare link per domande anonime. «Non hai i social» le dico e lei, con la supponenza dell’adolescenza, taglia corto: «La uso su Whatsapp. Lo fanno tutti». Deglutisco il mio «e quindi?» insieme a una lunga lista di perplessità e tocco il tasto conferma.

Qualche ora dopo apro Whatsapp e l’aspetto al varco, pensando che è meglio essere considerata una madre cringe che totalmente inconsapevole. Ed è lì, poco dopo, che vedo spuntare sullo stato la richiesta: fammi una domanda anonima con sotto il link per partecipare.

Nei giorni successivi le domande fioccano come la neve a dicembre prima del cambiamento climatico, con i conseguenti psicodrammi, viaggi mentali, insulti, cotte svelate e speranze tradite. Poi arriva la fase dell’invio di foto tra amiche e amici per essere valutati: un voto per la bellezza, uno per la simpatia, uno per l’intelligenze e uno per quanto ti voglio bene.

Mi si apre un mondo: i giovanissimi senza accesso ai social network si sono organizzati per riprodurre le stesse dinamiche sugli spazi digitali che possono utilizzare, rivelandosi molto scaltri nell’aggirare le regole imposte dagli adulti e costringendoci a fare i conti con l’unica cosa utile che possiamo fare, anche se faticosa e complicata (soprattutto perché non siamo particolarmente preparati neanche noi): educarli a gestire al meglio la loro vita online come quella offline, partendo dal rispetto per se stessi e per gli altri. Qualcosa di cui si dovrebbe occupare anche la scuola, in modo serio e strutturato.

Adolescenti e identità (digitale)

Diverse generazioni che attraversano gli spazi sociali virtuali, spesso sfiorandosi senza incontrarsi davvero, ognuna con il suo modo specifico di interagire. C’è un motivo per cui la generazione Alpha, quella delle persone nate dal 2010 al 2025, viene chiamata anche screenagers: per l’importanza degli schermi nella loro crescita. Una ricerca di Save The Children del 2024 rivela che «in Italia utilizza internet tutti i giorni il 78,3 per cento degli 11-13enni, il 91,9 per cento degli adolescenti nella fascia 14-17 anni e il 44,6 per cento dei bambini tra i 6 e i 10 anni (…) La giornata dei più giovani ruota in gran parte attorno all’universo del digitale, amicizie comprese, ed è qui che bambini e adolescenti costruiscono anche la propria identità».

In sintesi: non esiste più distinzione tra la vita sociale online e offline e, soprattutto, non avendo esperienze diverse, la Gen Alpha non si pone il problema come chi l’ha preceduta. Per i millennial e la Gen Z le domande anonime riflettono (anche) l’incapacità di abitare la noia, che non è più contemplata, abituati a pensare e agire alla velocità di un click, a essere sempre connessi, rintracciabili, impegnati a fare qualcosa che difficilmente sarà protagonista dei nostri ricordi migliori, come scrollare il feed di Instagram alla ricerca di qualcosa – ma che cosa?

È sui social network che per tre generazioni – a diversi livelli, tutte coinvolte – nascono (e finiscono) amicizie, passioni, relazioni affettive, dove si costruiscono il proprio attivismo, spazi creativi e artistici, intrattenimento, informazione, dove si esprime la propria opinione, si dibatte, si insulta e si viene insultati. Sono spazi dove si amplificano le emozioni, dove la solitudine viene narcotizzata, dove le fragilità diventano bersaglio di estremisti e truffatori, dove ansia e depressione rischiano di esplodere.

Dove chi si espone diventa popolare  – il grande sogno contemporaneo – ma anche un bersaglio, dove il privato da politico diventa (molto spesso) semplicemente pubblico. Mi sto annoiando, fammi una domanda anonima. Chiedimi se sono infelice, perché tanto, alla fine, è questo che vuoi sapere.

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