I miei nonni sono morti d’infarto, così tre dei miei zii, e mio padre a cui è seguita mia madre. Perciò a me e a mio fratello gemello è stato prescritto uno screening cardiaco completo che né io né lui abbiamo mai fatto. Senso di giovinezza, impudenza che poi è la vera eredità di famiglia, altro che cuore difettoso.

Nessuno dei nostri morti, seppur avvertito, ha praticato una vita morigerata come smettere di fumare, tanto meno si è sottoposto a controlli regolari.

Posso dire che nostro padre e nostra madre, medici e dunque consapevoli, si sono lasciati morire. Permettendo a me e a mio fratello di essere orfani giovani che non vedono invecchiare i genitori, orfani senza anziani a carico.

Giovanissimi, ci godiamo l’eredità – lui viaggi, io chirurgia plastica, liposuzione, addominoplastica, vestiti, inseminazione artificiale, figlia, tata fissa. A quel punto il patrimonio di partenza fortemente intaccato ci costringe a ridimensionare i progetti iniziali quale investire in immobili.

Sono io a trovare tra gli annunci l’occasione: 190 metriquadri, ultimo piano, terrazzo. Nuda proprietà di settantacinquenne, che – considerata l’età in cui i nostri genitori sono passati a miglior vita – ci autorizza a considerare imminente la morte dell’ultra settantenne.

Compriamo, brindiamo. Ristrutturiamo e affittiamo, questa l’intenzione. Contatto un architetto: mi servirà un progetto, a breve inizieremo i lavori, a breve quanto? Un anno, massimo due.

Ne passano venti.

Vent’anni di cortesi auguri di Natale – signor Giuseppe, come sta?

Nella speranza che dall’altro capo lui dica male, o non risponda, segno inequivocabile.

Invece anno dopo anno, Natale dopo Natale il signor Giuseppe risponde. Al secondo squillo, talvolta al primo. Vigilissimo – come sto? un poco di tosse, iperglicemia, ma bene, nel complesso bene. Certo, la solitudine si fa sentire, malgrado non si sia mai sposato e non abbia figli, questa solitudine della vecchiaia è comunque differente da quella di prima. I nipoti vivono in America. Gli amici, tutti morti, tranne uno che non riconosce nemmeno la moglie.

Di veramente vivo è rimasto solo lui. «La vita è passata in un soffio» sospira al telefono. «E io sono sempre stato qui».

«Non si butti giù» ribatto io dal fortino della mia giovinezza, tarda giovinezza, poiché frattanto mi sono sposata, ho avuto una figlia, ho cambiato piani: appena il signor Giuseppe muore, ristrutturo la casa e mi ci trasferisco. Mi piace l’idea del terrazzo al piano.

Eccomi nella fantasia a rientrare nella nuda proprietà, eccomi ad attraversare salone doppio, cucina, camere da letto, due. E uscire sul terrazzo, inalare il profumo di primavera, tutta la primavera che mi precipita addosso, allargare le braccia. Sai che potrei installare? Una piscinetta per la bambina – intanto mia figlia ha compiuto due anni.

Poi tre, quattro. Mi mancano i nonni – dice, pur non avendoli conosciuti. Non ti credere – faccio io – i nonni vanno portati di continuo in ospedale

(L’immagine che ho io della vecchiaia, quell’idea di peso, incombenza, cappio al collo, soffocamento, la prospettiva di schiavitù a cui io sono sfuggita – penso, ed è un sollievo).

Sei, sette, otto anni.

La mia bambina ha dodici anni quando ricevo la chiamata dal cellulare del signor Giuseppe.

Un poliziotto m’informa del suo decesso, il poveretto è stato ritrovato nel parco, riverso su una panchina. Come i nostri genitori, come i nostri avi il signor Giuseppe è morto di attacco cardiaco. Ogni anno nel mondo muoiono d’infarto circa 18 milioni di persone. Se all’insorgere della malattia, ai primi sintomi, si sottoponessero a un trapianto, la cifra sarebbe dimezzata – pensiero che spesso mi ha sfiorato. Per rendere possibile ciò almeno dieci milioni di persone all’anno dovrebbero donare gli organi, previo consenso. Solo con questo ricambio, catena di montaggio – sempre nei miei pensieri – ci potrebbe essere un’umanità più longeva, e molti dei nostri parenti sarebbero sopravvissuti, penso e magari sbaglio. Sicché la vera questione è donare gli organi, cosa che, per esperienza personale, so non essere facile.

Io e mio fratello gemello non solo non ci siamo mai sottoposti ai controlli prescritti dai medici, ma alla domanda se, in caso di morte avremmo voluto donare gli organi, abbiamo barrato la casella del no. Per quanto mi riguarda non mi va di rivivere dentro qualcuno che non sia io (se mi fermo a riflettere sotto sotto c’è anche il timore che i miei organi, in particolare il cuore, si rivelino inutilizzabili – scadenti, spazzatura).

Ma torniamo al signor Giuseppe: non hanno trovato parenti prossimi, servirebbe una gentilezza – sempre il poliziotto.

Per acconsentire alla gentilezza, il pensiero deve andare alla casa: capire come ricavare un terza camera da letto, perché nel frattempo io e mio marito dormiamo in camere separate, le nostre esigenze sono cambiate. Nell’immaginazione attraversare i vani. Uscire in terrazza, calcolare che esattamente dove un tempo volevo fare la piscina potrebbe venire una stanza, sfondare una parete, abuso edilizio. Respirare, godersi questo principio d’estate – è estate. Chiudere gli occhi, sulle sdraio mia figlia e le amiche in bikini. Devono arrivare al mare abbronzate.

Col miraggio della proprietà finalmente nostra, l’investimento che dopo vent’anni dà i suoi frutti.

Io e mio fratello gemello ci ritroviamo a percorrere il corridoio sotterraneo dell’Istituto di medicina legale. Questo sotterraneo che mi fa pensare a quello del Policlinico – era il Policlinico?, La volta che mamma prese le pasticche – si sovrappongono luoghi e situazioni. Siccome mio fratello non ricorda, divento io memoria anche per lui.

Quanto sarà rimasta, una settimana? Proseguo nella ricostruzione: con noi doveva esserci zio, seguivamo la barella che trasportava mamma. Ricordo la paura che in fondo ci fosse la camera mortuaria, la sensazione che mamma sarebbe morta.

Non morì. Non quel giorno.

E dunque oggi io e mio fratello camminiamo di nuovo lungo un corridoio sotterraneo, sebbene non sia lo stesso di allora.

Infastiditi per l’incombenza – mentre fin qui non abbiamo dovuto riconoscere nessun cadavere, non quello dei nostri genitori, entrambi spirati nel sonno, e trovati da altri adulti – noi i ragazzi. Noi i ragazzi a cui veniva impedito di entrare in camera – troppo giovani, troppo figli.

E adesso che i ragazzi della stanza non siamo più noi, adesso che i nostri anni sommati fanno una persona vecchissima?

Procediamo come se non avessimo mai abbandonato il corridoio sotterraneo, ancora seguendo la barella di nostra madre, sperando che non muoia, non deve morire.

Pertanto il gesto di oggi – prendere la mano di mio fratello – appartiene a quell’altro tempo, all’inizio, così la paura di arrivare in fondo al tunnel. Non è che puoi entrare solo tu?

Nessun problema, accetta lui, aggiungendo: non esagerare però, di base chi lo conosceva.

Io inizio a piangere, sto piangendo, copro la faccia con le mani – pudore o disperazione.

Era una persona gentile – dico.

Al che mio fratello dice: ehi, stai per avere una casa col terrazzo!

Ed è vero. Apriamo le finestre, che entri la luce. Godiamoci gli immobili. Spalanchiamo le porte agli amici, alle amiche delle figlie in bikini, venite ragazze. Che sia festa. Costruiamo piscine, compiamo abusi edilizi, brindiamo!

Se non fosse che, giorni dopo, quando entriamo davvero nella casa del signor Giuseppe, quando ci spostiamo di vano in vano, ci accorgiamo che la terza camera da letto esiste. Una terza stanza che ho dimenticato, forse rimosso, e che di colpo diventa la camera dove adulti generici ci hanno impedito di entrare, la camera di tutti i nostri morti. Accomodatevi.

Curiosità: se io e mio fratello gemello dovessimo morire lo stesso giorno, così come siamo nati, i nostri cuori anaffettivi, refrattari, idrorepellenti, cinici, i nostri cuori messi insieme potrebbe fare un unico cuore sano?

© Riproduzione riservata

© Riproduzione riservata