Il reverendo e il cannibale. Due inglesi e la fame del mondo

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è cucina abitabile. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. Quando nel 1729 Jonathan Swift pubblicò la sua Modesta proposta — un pamphlet di poche pagine che suggeriva di risolvere la fame in Irlanda mangiando i bambini poveri — molti lettori non colsero la satira. Alcuni si scandalizzarono, altri, dicono le cronache, la lessero come un piano economico credibile. Ma Swift non voleva proporre un nuovo menu: voleva sbattere in faccia ai benpensanti la crudeltà con cui l’Impero britannico trattava la popolazione irlandese. Dietro l’idea cannibale c’era un paradosso morale: se i poveri non sono considerati esseri umani, tanto vale considerarli risorse alimentari. La provocazione resta viva: quanto siamo disposti a sacrificare per la nostra sazietà? Oggi il menu del mondo è vastissimo, ma la fame non è scomparsa, si è solo spostata. A un capo della catena alimentare c’è l’obesità da eccesso, all’altro la denutrizione da mancanza. In mezzo, un’industria che produce, spreca e inquina con efficienza malthusiana. Perché Malthus, il reverendo anglicano che alla fine del Settecento trasformò la fame in una formula matematica, continua a essere il convitato di pietra di ogni dibattito sulla sostenibilità. Nel Saggio sul principio di popolazione (1798), scrisse che la popolazione cresce «in progressione geometrica», mentre le risorse «in progressione aritmetica». Tradotto: gli uomini si moltiplicano più velocemente del cibo. L’unico equilibrio possibile, secondo lui, veniva imposto dalla natura attraverso carestie, malattie e guerre, una forma di “selezione naturale” ante litteram. Le famose “forbici mathusiane”. Malthus e Swift sono agli antipodi, eppure si guardano negli occhi: il primo vede la fame come legge naturale, il secondo come crimine sociale. Il reverendo ammonisce: «Contenetevi, o la Terra vi punirà». Il satirico replica: «Non fate finta di essere morali mentre divorate i vostri simili». E tra i due, in questa tensione tra limite e colpa, si è scritta la storia moderna del cibo. Sprechi alimentari e upcycling: Reduced nasce con lo scopo di ridurne l’impatto L’illusione Nel Novecento la scienza ha creduto di smentire Malthus. Con fertilizzanti, antiparassitari e varietà ad alta resa, la cosiddetta Rivoluzione Verde ha moltiplicato i raccolti e reso possibile l’illusione dell’abbondanza infinita. Ma l’altra metà della profezia — quella della natura che presenta il conto — si è solo spostata nel tempo. Oggi la fertilità dei campi diminuisce, i suoli si impoveriscono, e la produzione agricola è tra le prime cause di emissioni e deforestazione. Swift, dal canto suo, avrebbe riconosciuto la sceneggiatura: nel suo secolo, i poveri irlandesi morivano di fame davanti ai granai pieni destinati all’esportazione. Oggi la logica non è cambiata: i raccolti globali sono sufficienti a sfamare tutti, ma le disuguaglianze — economiche, politiche, climatiche — lasciano interi paesi a digiuno. Malthus aveva torto nei numeri, ma forse non nello spirito: le risorse finiscono sempre prima della giustizia. Eppure, paradossalmente, mai come ora abbiamo fatto della sostenibilità un argomento di moda. È il trionfo del marketing della coscienza, dove basta un bollino per sentirsi virtuosi. Swift ne avrebbe riso amaramente: per lui la fame era una questione politica, non una tendenza gastronomica. Malthus, invece, aggiornerebbe le sue curve con grafici sui cambiamenti climatici: l’acqua che scarseggia, le rese che calano, le migrazioni che aumentano. I “limiti della crescita” che lui intuì con la Bibbia e la matematica, oggi li leggiamo nei report dell’Ipcc. E, come allora, la soluzione proposta è spesso la stessa: affidarsi alla tecnologia. Promesse di un futuro in cui potremo continuare a mangiare senza sensi di colpa. Ma ogni nuova invenzione alimenta anche un’antica paura: quella di allontanarci troppo dalla natura. Il riscatto alimentare parte dal carcere, tra opportunità lavorative e iniziative anti spreco Botte piena Forse è questo il nostro vero nodo: vogliamo nutrirci come Malthus e sentirci come Swift. Da un lato, pensiamo al cibo come il reverendo pensava alla popolazione: una questione di equilibrio, di numeri, di sostenibilità misurabile. Contiamo le emissioni, pesiamo le calorie, tracciamo l’impronta ecologica di ogni pasto come fosse un sacramento laico. Dall’altro lato, però, desideriamo anche essere moralmente puri, ironici e indignati come Swift: vogliamo che ciò che mangiamo non danneggi nessuno, che rifletta i nostri valori, che ci permetta di restare sazi ma innocenti. Così oscilliamo tra il calcolo e la coscienza, tra la bilancia e la colpa. È la nostra nuova forma di penitenza: cercare una sostenibilità che sia insieme scientifica e redentrice. È il paradosso di un’epoca che produce sofisticate alternative vegetali ma fatica a risolvere la fame reale. Riletti oggi, Swift e Malthus non sono figure d’altri tempi, ma due voci nel nostro stesso dibattito. Il primo ci chiede di guardare la fame come una costruzione sociale, frutto di scelte e disuguaglianze. Il secondo ci ammonisce che nessun sistema può crescere oltre i limiti del suo ambiente. Entrambi, in modi opposti, ci ricordano che la sostenibilità non è una tecnica, ma un’etica. Forse, allora, la nostra “modesta proposta” per il XXI secolo dovrebbe essere meno ambiziosa ma più sincera: imparare a mangiare con immaginazione. Ricordare, come Swift, che ogni pasto è un gesto politico, e come Malthus, che ogni eccesso ha un prezzo. [Missing Caption][Missing Credit]