Al cinema, i clienti non esistono

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è come si salvano i ristoranti. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. Una persona che non sapesse nulla di ristorazione, che non fosse mai andata in un ristorante e non avesse cognizione del funzionamento delle imprese gastronomiche, ma che si fosse informata solo attraverso serie tv e film sul tema, potrebbe pensare che i clienti siano una parte marginale. Un orpello. Senza identità La rappresentazione mediatica e il racconto della cucina sono quasi sempre una sfida con sé stessi o una relazione sentimentale con un altro, sia immaginario che collocato nella memoria. Si cucina per essere migliori, per raggiungere l’eccellenza o per sentirsi vicini ai propri cari. Se si cucina per qualcun altro, non si tratta mai di clienti, ma di affetti profondi. In una parola, la cucina al cinema e in televisione non è mai un mercato, non si misura con la clientela intesa come gruppo eterogeneo di persone da soddisfare, ma è un’arte o una pratica pura. Solitamente proprio non si vedono i clienti, se non di sfondo, per mostrare il locale pieno o mezzo vuoto come segno di un successo arrivato o da conquistare. Alle volte, qualcuno che protesta malamente, ma non hanno praticamente mai un’identità. Non sappiamo chi sono i clienti dei ristoranti dei film e delle serie, a che tipologia umana appartengono, cosa pensano del locale o di quello che stanno mangiando, che esigenze hanno e via dicendo. Tutto quello che in realtà nella vera ristorazione è determinante, se non l’unica cosa che conti realmente. Per questa ragione, in un certo senso, i film e le serie sulla cucina non fanno praticamente mai i conti con quello che la cucina realmente è, con le sue esigenze e i suoi problemi concreti. Questi clienti che non si vedono, non parlano e non hanno richieste sono totalmente in balia di qualsiasi cosa venga preparata. A contare è solo l’esecuzione, come per le opere d’arte. Cucina interiore Questa visione “pura” funziona molto bene all’interno di un racconto, per questo è così frequente: fa in modo che quello che i personaggi fanno rispecchi il loro mondo interiore. I film migliori sul tema della cucina sono infatti quelli in cui lo stato dei personaggi si riflette in ciò che cucinano o in come cucinano, e noi comprendiamo qualcosa di più su di loro o sul mondo, o su come funzionino le relazioni umano, non solo attraverso la lingua parlata ma attraverso quella delle pietanze. Come per esempio in Io sono l’amore di Luca Guadagnino, in cui un cuoco e una donna si parlano attraverso i piatti. E anche in questo caso la cucina come impresa commerciale non c’entra niente, i compromessi necessari per venire incontro alla clientela non ci sono, ci sono la creatività o la fatica. Il cinema insomma non crede davvero nella cucina come argomento da trattare: la sfrutta come sfondo modaiolo, perché negli ultimi vent’anni gli chef hanno assunto un’altra connotazione nell’immaginario collettivo. Sono rockstar, alcuni con atteggiamenti eccessivi da punk, altri con raffinatezze da direttori d’orchestra. Film e serie vedono nella cucina qualcosa di molto simile alla danza o allo sport, cioè una pratica che mette alla prova i personaggi, li sfianca e ne fa risaltare lo spirito e la dedizione. E gli chef spuntano anche in film in cui non è indispensabile che ci siano. Ci sono chef in film romantici come We Live in Time (in cui la protagonista è una ragazza determinata, e quindi farle fare la cuoca dalle grandi aspirazioni è una buona soluzione) o nell’italiano La cena perfetta (in cui la protagonista è una donna indipendente che tiene alla carriera, e quindi: chef). E ci sono ristoranti che vivono al confine con il crimine come in Black Rabbit, serie uscita il mese scorso con Jude Law e Jason Bateman, fatta di bassifondi e vita di strada. Ma ancora la cucina è grande unione di anime affini nel francese Il gusto delle cose, in cui Juliette Binoche e Benoît Magimel sono mente e braccio gastronomici uniti dalla preparazione del cibo con una cura affascinante. La cucina serve a rappresentare frenesia e tumulti interiori in The Bear, serie nella quale i tormenti e i percorsi psicologici di ogni personaggio sono sublimati nel suo ruolo all’interno di una brigata che lotta per migliorare il ristorante, pura esternalizzazione di ciò che hanno dentro. La cucina è purificazione per Bradley Cooper in Il sapore del successo, ed è conquista di un diritto a esistere in Ratatouille, in cui anche il più marginale degli esseri dimostra di avere la dignità necessaria a coltivare un sogno e perseguirlo (che nella mentalità americana equivale ad affermare di essere vivi). Heinz Beck: «Le cucine non sono quelle della tv. Dobbiamo cogliere i cambiamenti» La deificazione dello chef Pochissime storie invece si interessano dell’unica cosa che conti davvero in un locale: i clienti. Perché non è una dinamica narrativa semplice o di provata efficacia. Le storie parlano di noi e cercano di rappresentare quello che ogni spettatore può sentire dentro di sé. È molto più semplice raccontare relazioni con gli altri che la presenza su un mercato competitivo, perché tutti hanno esperienza delle prime e pochi delle seconde. La lotta per migliorare sé stessi o i rapporti con gli altri è qualcosa a cui è facile relazionarsi, la soddisfazione di una clientela no. Quando i film se ne occupano, quindi, è sempre in modi strani. Che il rapporto dei cuochi o di chi gestisce un ristorante con i clienti sia potenzialmente un ambito di grande interesse lo hanno mostrato due film, con realismo e con fantasia. The Menu, uscito tre anni fa con Ralph Fiennes e Anya Taylor-Joy, racconta di uno chef-star che attira alcuni clienti selezionatissimi in un luogo remoto e isolato per servire loro la più esclusiva delle cene, che comprende anche omicidio e mutilazione. Nel film The menu i ristoranti stellati sono trappole mortali Il film mette in crisi l’idea stessa che gli chef abbiano assunto lo statuto di grandi artisti e divinità intellettuali proprio attraverso il rapporto con i clienti, che sono trattati come schiavi, devono subire ogni decisione dello chef perché l’unica cosa che conta è l’esperienza artistica. Non sono consumatori, ma fan in adorazione che hanno perso il senno e non distinguono più ciò che accade intorno a loro. Il film sconfina ben presto nell’horror e quindi li riduce a vittime. Quello che dice The Menu è che la deificazione degli chef è un danno per i clienti, perché li trasforma da «quelli che hanno sempre ragione” a “quelli che hanno sempre torto». Questo rapporto sbilanciato, conseguenza di come la società ha reinquadrato la cucina, è estremamente sottovalutato da tutti gli altri film. Turni trasparenti, orari limitati. Lo slalom dei ristoranti per uscire dal burnout I demoni Boiling Point, film inglese di quattro anni fa, ambientato interamente in una serata di un ristorante di alto livello, racconta invece con grande realismo il contrario: come i clienti siano i demoni che infestano le vite di chi lavora in cucina. Il film tiene insieme le molte storie individuali di cuochi, manager e personale di sala, intrecciandole sotto la pressione di una serata in cui offrire un servizio eccellente, come sempre. La sfida però non è con l’ideale di eccellenza, ma proprio con le persone. Ogni tavolo è una tragedia, e porta un problema. Ogni cliente è un fantasma dal passato, un razzista, una bomba pronta a esplodere da maneggiare con cura o un messaggero di sventura. Boiling Point riesce a creare un’associazione immediata tra l’arrivo di un nuovo tavolo e l’ansia di un sicuro problema imminente. Sono due rappresentazioni estreme, è chiaro. Nessuna delle due racconta davvero il misto di rapporti di soddisfazione, richieste e subalternità che caratterizza la relazione con la clientela. Entrambe però riconoscono la parte più misteriosa della cucina, cioè che si tratta di una forma d’arte e di produzione culturale che, come altre, è soggetta a un rapporto sbilanciato con una massa di persone sconosciute che si consuma in tempo reale, più volte a sera e deve dimostrare il proprio valore di continuo. Arriva “Aragoste a Manhattan”, il film antitesi del food porn [Missing Caption][Missing Credit]