Una stanza buia, don Vito Corleone è sprofondato in una poltrona e l’impresario di pompe funebri Amerigo Bonasera è in piedi con il cappello in mano. Gli sta chiedendo “soddisfazione” per la figlia, sfregiata la sera prima da due teppisti. È un’ombra, si sente solo la sua voce: «Trovasti il paradiso tuo in America. Commercio avviato, vita sicura, polizia che ti protegge e giustizia nei tribunali. A che ti serviva un amico come me? Ma ora, vieni da me e mi dici: “Don Corleone, dammi giustizia”. Però non lo fai, non lo domandi con rispetto, tu non offri amicizia. Non ti sogni nemmeno di chiamarmi Padrino, invece ti presenti a casa mia il giorno che si marita mia figlia e mi vieni a chiedere un omicidio a pagamento».

Amerigo Bonasera comincia a sudare, si rigira il cappello fra le dita, balbetta: «Io vi chiedo giustizia, anche loro hanno à soffrire chiddu che lei soffre. Decida lei ù prezzo e io pago».

Don Vito Corleone si alza e si avvicina lentamente all’ospite, la sua voce si fa ancora più roca: «Ma che ti fici, Bonasera? Che ti fici mai per meritare questa mancanza di rispetto? Se venivi da me in amicizia, i bastardi che hanno sfigurato tua figlia avrebbero la punizione oggi stesso».

Bonasera capisce di avere sbagliato, barcolla, s’inchina, bacia la mano del Padrino e implora: «Mi volete come amico?». E don Vito: «Bravo, bravo Bonasera, un giorno...e non arrivi mai quel giorno...ti chiederò di ricambiarmi il servizio».

È una delle prime scene di un film che, cinquant’anni fa, segnerà la storia del cinema. Il 15 marzo del 1972 esce The Godfather di Francis Ford Coppola, titolo italiano Il Padrino. È subito un trionfo.

Dalla Sicilia a Little Italy

La Paramount pictures organizza la première a New York, conquista tre premi Oscar, gli incassi sfiorano i 300 milioni di dollari frantumando il record del kolossal Via col vento. In Italia, i miliardi di vecchie lire incamerati dai botteghini nella stagione 1972/1973 sono dieci. A Palermo c’è un assalto alle sale come mai era avvenuto.

Da quel momento, cinema e mafia si non si lasceranno più. A volte non si riuscirà neanche a capire se è la mafia che ispira il cinema o, viceversa, se è il cinema che ispira la mafia. Per il magazine Empire Il Padrino diventa “il film più bello di tutti i tempi”, a Barack Obama appena eletto presidente degli Stati Uniti chiedono di stilare una classifica delle sue pellicole preferite e risponde senza esitazione: «Ai primi posti c’è Il Padrino parte prima e poi parte seconda». Il numero due della saga è del 1974, il numero tre del 1990.

Dalla Little Italy disordinata e colorata del secondo dopoguerra ai campi arsi della Sicilia più antica, dai bastimenti che scaricano miseria e immigrati italiani a Ellis Island allo sfarzo dei casinò di Las Vegas e Reno, decennio dopo decennio fino ai misteri del Vaticano e ai segreti delle banche europee. In mezzo guerre e inganni, traffici di droga, la Cuba dei moyitos e del generale dittatore Fulgencio Batista, regolamenti di conti, politica e cinema nel cinema.

Il best seller di Mario Puzo

Un film che sarà mito per i boss, una narrazione della mafia che trasporta un’immagine “positiva”, i vecchi valori della famiglia, la mafia buona contro quella cattiva, quella che fa denaro con gli stupefacenti e quell’altra che non si sporca le mani con la polvere bianca, la mafia dell’onore e la mafia del disonore.

Negli anni Ottanta, nei covi ancora caldi dei mafiosi latitanti di Palermo, sui comodini delle camere da letto i poliziotti trovano sempre e soltanto due libri. Uno è la Bibbia. E l’altro Il Padrino di Mario Puzo, best seller dal quale è stato tratto il film, pubblicato negli Usa nel 1969 e in Italia nel 1970, 9 milioni di copie vendute nei primi tre anni, nel 2000 le copie sono già più di 21 milioni.

Ma è la prima pellicola della trilogia che fa più clamore e spettacolo, produttore Albert Ruddy, fotografia di Gordon Willis, musiche del compositore milanese Nino Rota. Il cast è straordinario. Don Vito è Marlon Brando. Suo figlio Michael è Al Pacino, l’altro suo figlio Santino - che gli americani però chiamano Sonny - è James Caan, il terzo figlio Fredo è John Cazale. E il consigliere della famiglia Tom Hagen è Robert Duvall, la fidanzata di Michael Corleone e poi sua moglie Kay Adams è Diane Keaton, la moglie siciliana di Michael è Apollonia che è l’attrice Simonetta Stefanelli, nella vita vera la prima moglie di Michele Placido.

La pellicola restaurata 

Il film è lungo 175 minuti e fino a domani, proprio per il cinquantesimo dalla sua nascita, è tornato prima negli Usa e poi in Italia sul grande schermo e raccolto in un cofanetto, nuova tecnologia, in 4K ultra hd e dolby vision. Più di 4mila ore di lavoro per cancellare macchie e riparare strappi di pellicola, oltre mille ore per la correzione del colore. Un restauro durato tre anni e sempre sotto la supervisione di Francis Ford Coppola.

Un anniversario de Il Padrino che fuori dal cinema troverà tutta un’altra mafia, in Sicilia e in America. Quella dei Vito Corleone non esiste più, spazzata via a Palermo da Giovanni Falcone con il maxi processo e dall’altra parte dell’Atlantico con l’inchiesta denominata Pizza Connection, voluta dal procuratore Rudolph Giuliani che poi sarà anche sindaco di New York.

L’ascesa e la caduta dei Corleone è un po’ il riassunto della storia delle grandi famiglie siciliane che si sono trasferite all’inizio del secolo scorso da Castellammare del Golfo negli Usa, e un po’ quella degli Inzerillo e dei Gambino palermitani che sono approdati a Cherry Hill fra il 1954 e il 1958. La mafia che rappresenta la tradizione, il potere che passa inesorabilmente di padre in figlio, le regole non scritte che sono vangelo, la mafia (al contrario di ciò che hanno fatto Totò Riina e i suoi corleonesi) che aspira alla rispettabilità, a tramutarsi in potere legale. C’è tutto questo nell’epopea dei Corleone, dal furto di un tappeto in una ricca casa di New York agli accordi con un senatore dello stato del Nevada.

Il respiro della mafia

Don Vito se ne andrà per un infarto dopo essere scampato miracolosamente a un agguato, i suoi tre figli maschi avranno il destino che tocca a quella gente. Prima Santino, il più grande ma anche il più impulsivo degli eredi, che avrebbe dovuto succedere a don Vito e però viene attirato in un tranello, massacrato dalle mitragliatrici a un casello autostradale.

Poi Fredo, il più debole e insicuro che tradisce la famiglia e viene fatto uccidere da suo fratello Michael che assiste da lontano all’omicidio, su una barca che dondola sulle acque del lago Tahoe. E poi ancora, nel Padrino parte terza, Michael, decorato di guerra, unico figlio che il padre avrebbe voluto non coinvolgere negli affari criminali ma che alla fine prenderà il suo posto.

Fino a quando sarà bersaglio pure lui. Sta scendendo le scalinate del teatro Massimo di Palermo, un killer lo ferisce gravemente mentre la figlia Mary si spegne fra le sue braccia. Michael passerà gli ultimi anni della sua vita in solitudine nella sua villa siciliana. Per chi conosce le vicende di mafia i personaggi tratteggiati nel film sembrano quasi gli originali e non solo una copia. La loro gestualità, il loro linguaggio, i loro sguardi, l’«annacata», la camminata di chi si atteggia a “importante”, le riunioni di famiglia, le feste, il cibo servito in tavola. Il respiro della mafia al cinema.
Alcune battute sono memorabili.

L’offerta che non si può rifiutare

La più famosa: «Papà gli aveva fatto un’offerta che non poté rifiutare». È di Michael Corleone. Ricorda gli inizi della carriera di uno dei figliocci di don Vito, Johnny Fontane, cantante e divo di Hollywood somigliante tanto a Frank Sinatra che di rapporti con i gangster siculo-americani ne ha sempre avuti.

E racconta di come Johnny (l’attore Al Martino), un giorno decide di sciogliere un contratto con un maestro di musica ma quest’ultimo non accetta. Don Vito gli offre 10mila dollari, il compositore non cede. Qualche tempo dopo, Vito Corleone si presenta da lui con il sicario Luca Brasi e il compositore scioglie il contratto per soli 100 dollari. Quale era l’offerta che non poté rifiutare? «Luca gli puntò la pistola alla testa e mio padre gli disse che su quel documento ci sarebbe stata la sua firma o il suo cervello».

Un episodio che ne anticipa un altro altrettanto crudo e che svela la natura dei Corleone, pacifica solo all’apparenza. Quando Johnny Fontane è ormai sul viale del tramonto e un produttore cinematografico non vuole dargli una parte importante in un film (Johnny va piagnucolando dal Padrino chiedendo aiuto), il produttore si sveglia di soprassalto nella notte trovando la testa mozzata del suo purosangue, Khartoum, fra le lenzuola del letto. Una delle scene più truci.

Ma sono tante altre le frasi celebri che si inseguono dalla prima alla terza parte, tutte particolarmente “vere”, merito di una sceneggiatura – firmata da Coppola e da Puzo – che va molto in profondità nella cultura mafiosa. Una è questa: «Non odiare mai i tuoi nemici, influisce sul tuo giudizio». E un’altra: «A me non piace la violenza Tommy, sono un uomo d’affari e il sangue costa troppo». E un’altra ancora: «Mai dire a una persona estranea alla famiglia quello che hai nella testa».

C’è anche un momento brusco, fra Sonny Corleone e il consigliere della famiglia Tom Hagen, che spiega tanto della loro mentalità. Gli urla il primo: «Hanno sparato a mio padre!». Gli risponde l’altro con foga: «Hanno sparato a tuo padre per questioni d’affari! Non personali, Sonny!».

Superlativo un breve dialogo fra Michael Corleone e quella che diventerà sua moglie, Kay Adams. Le dice Michael Corleone: «Mio padre non è diverso da qualunque altro uomo di potere, da chiunque abbia responsabilità di altri uomini. Come un senatore, un presidente». Kay Adams: «Non vedi com’è ingenuo quello che dici?». Michael Corleone: «Perché?». Kay Adams: «Senatori e presidenti non fanno ammazzare la gente». Michael Corleone: «Chi è più ingenuo, Kay?».

Il nome

La suggestione de Il Padrino, almeno per noi siciliani, sta anche nel nome che Puzo ha voluto dare al suo protagonista: Vito Corleone, Vito come Vito Ciancimino e Corleone come il paese. E però per l’ambientazione nell’isola del suo film Coppola non ha scelto Corleone ma l’altra Sicilia, quella orientale, Fiumefreddo in provincia di Catania, Forza d’Agrò e Savoca e Motta Camastra in provincia di Messina. È lì che trova riparo Michael (che naturalmente chiamano subito Michele) dopo avere sparato a un capitano irlandese corrotto della polizia di New York in un ristorante. Tovaglie a quadri bianchi e rossi, il fiasco di vino, tutto che fa molto Italia del dopoguerra.

Finzione ma fino a un certo punto. Perché il figlio più piccolo di don Vito fugge nella terra d’origine del padre, protetto da don Tommasino, ex campiere e poi proprietario terriero, contrario ai traffici di droga.

Un’altra volta che ritorna la “mafia buona”, il grande limite de Il Padrino, capolavoro cinematografico ma culturalmente sbilanciato perché offre una visione distorta, marca sempre la differenza fra due società criminali, il bene e il male dentro la stessa Cosa Nostra. Don Tommasino sembra il sosia di Michele Navarra, il "Padre nostro” di Corleone fatto fuori nel 1958 da Luciano Liggio e da Totò Riina. E anche don Tommasino verrà ucciso dalla "nuova mafia”, crivellato di colpi a bordo della sua auto, proprio come Michele Navarra, sui tornanti della strada che si arrampica verso Prizzi.

I segreti del Vaticano

Nelle puntate successive alla prima entrano nel cast altri grandi attori. Ne Il Padrino 2 il giovane Vito Andolini, il vero nome di don Vito Corleone, è interpretato da Robert De Niro. Ne Il Padrino 3 Vincent Mancini, il figlio illegittimo di Sonny Corleone, è Andy Garcia.

La selezione dei protagonisti del film si è rivelata problematica fin da quando Coppola aveva deciso di girare. La Paramount era orientata a offrire la parte di don Vito a Ernest Borgnine o a Orson Welles, qualcuno aveva pensato pure a Gian Maria Volontè. Ma Coppola volle a tutti i costi Marlon Brando. Al tempo l’attore aveva 47 anni ed era troppo giovane per impersonare il vecchio boss, così si presentò al provino recitando con pezzi di cotone infilati nella bocca. Per gonfiare le guance e apparire più anziano.

L’ultima parte de Il Padrino entra prepotentemente nell’attualità di quegli anni. Michael Corleone è ricchissimo, debilitato dal diabete, ha una fondazione attraverso la quale ambisce a conquistare onorabilità sociale e recidere ogni legame con il passato criminale. E investe un’enorme somma di denaro nella Banca vaticana, vuole controllare l’«Internazionale immobiliare».

Sullo sfondo la morte di Giovanni Paolo I, vescovi e cardinali che sono un impasto dal quale esce l’identikit di monsignor Paul Casimir Marcinkus che fu protagonista di trame fra l’Istituto opere di religione e il Banco ambrosiano, le figure di Michele Sindona e Roberto Calvi, uomini politici come Giulio Andreotti e pupari come Licio Gelli.

Qualcuno, fra una scena e l’altra, cita anche una frase famosa dello stesso Andreotti: «Il potere logora chi non ce l’ha». C’è un’altra fazione di mafia che si oppone ai progetti di Michael Corleone, nel suo intento di stringere patti con il Vaticano. E lo stesso figlio del Padrino teme per la vita del papa e per sé stesso. Poi, anche nel film, il cardinale Lamberto, appena diventato pontefice, all’improvviso muore.

Cannoli al veleno

Per Michael Corleone inizia il conto alla rovescia. Il rivale di cosca don Altobello, l’attore Eli Wallach, ingaggia un sicario per farlo fuori. Per l’occasione si traveste da prete. Ma prima che Michael venga ferito e sua figlia Mary uccisa fuori dal teatro Massimo, c’è un altro omicidio. È don Altobello che muore mentre assiste alla prima della Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni.

È uno dei “momenti di mafia“ meglio fissati da Coppola, i doppi e i tripli tradimenti. La figlia femmina di don Vito Corleone, Costanzia detta Connie, regala al perfido don Altobello una guantiera di cannoli. Al Massimo si spengono le luci, nel loggione d’onore lui ne afferra uno, affonda i denti nella cialda e poi nella cremosa ricotta.

È l’ottava scena dell’opera, «Hanno ammazzato compare Turiddu», la più bella. Dopo il primo cannolo, il secondo. E don Altobello è già dolcemente morto. Cannoli al veleno. Tutto molto teatrale e tutto infatti si svolge a teatro. I confini fra realtà e finzione sono molto labili, non si sa mai dove cominci l’una e dove finisca l’altra.

Michele Greco e Mosè

Una vittima eccellente trascinata in questa promiscuità è stato Michele Greco, "il papa della mafia“, il boss della borgata di Ciaculli che era il rappresentante numero 1 della mafia di Palermo ma di fatto una marionetta nelle mani dei corleonesi.

Probabilmente, è l’unico boss siciliano che non ha amato quello che era considerato da tutti gli altri suoi amici un testo sacro. E ne ha dato dimostrazione in un’udienza, durante il maxi processo a Cosa nostra. Nel tentativo di scrollarsi di dosso le accuse dei collaboratori di giustizia, il “papa” ha tirato in ballo il pentito Salvatore “Totuccio” Contorno e pure il film di Coppola.

Molto pittoresca la sua arringa difensiva: «Io le posso dire una cosa signor presidente. Che la rovina dell’umanità sono certi film, film di violenza, film di pornografia. Sono proprio la rovina dell’umanità signor presidente perché… perché se Totuccio Contorno avesse visto Mosè e non Il Padrino, ad esempio, non avrebbe calunniato nessuno… nella maniera più assoluta. Invece Totuccio Contorno, purtroppo signor presidente, ha visto Il Padrino».

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