Il cinema sconta da sempre, nei confronti della prostituzione, una specie di debito artistico. Quasi la volontà di rappresentarla, di affrontarla dialetticamente, anche solo di trasporla celasse in realtà il tentativo di circoscrivere un aspetto della natura femminile che resterebbe altrimenti ignoto, misterioso, inaccessibile.

Laddove Giulietta Masina de Le notti di Cabiria è spinta alla prostituzione a causa delle sue condizioni materiali e coltiva il sogno di essere riscattata, Catherine Deneuve di Belle de jour sceglie deliberatamente di condurre una doppia vita: esce di notte, presta servizio in un bordello e compie così un muto gesto di ribellione alla morale borghese dell’epoca.

È questo a sancire una sorta di confine invisibile intorno al tema della prostituzione: se una donna offre prestazioni sessuali in cambio di denaro perché non dispone di alternative tutti sono piuttosto concordi nel riscontrare una dinamica di subordinazione che occorre in qualche modo scardinare.

La narrazione non presenta conflitti: la donna in questione è genericamente vittima di meccanismi di potere dai quali non può sottrarsi senza essere aiutata. Ne è un esempio Anora di Sean Baker, premiato quest’anno con cinque premi Oscar, dove una giovane spogliarellista cerca strenuamente di rivendicare se stessa e la sua classe sociale fino ad accettare di sposare l’erede di un’inquietante famiglia di oligarchi russi.

Cosa succede però quando sono le donne ad aderire in modo spontaneo? In questo caso la storia produce un interrogativo che resta sospeso e trascende, sopravvive alla sua conclusione: in Povere creature! di Yorgos Lanthimos la protagonista accoglie felicemente l’idea di prostituirsi perché alimenta il suo spirito avventuriero, il suo bisogno di denaro e la sua irriducibile passione sessuale. Sia lei che Catherine Deneuve compiono uno scarto eclatante rispetto al ruolo e alle aspettative imposte dall’orizzonte a cui appartengono. Riprendendo se stesse, collocandosi altrove attuano il primo gesto autonomo della loro vita.

Jeune et jolie di François Ozon vede la quindicenne Isabelle, interpretata da Marine Vacht, cominciare senza ragione a incontrare uomini più anziani in costose camere d’albergo. Rispondendo al duplice desiderio di degradarsi e di esercitare un controllo sul proprio erotismo. La domanda a cui il film non risponde e che insegue l’intero corso della narrazione è: perché lo fa?

Il ruolo della tecnologia

Una domanda su cui vale la pena interrogarsi, anche parlando con persone che lavorano in questo mondo. Ormai sono numerose le realtà virtuali per chi cerca il modo di prostituirsi. Dal 2005 esiste Bacheca Incontri, che funziona esattamente come i vecchi annunci sui giornali: chiunque può pubblicare un’offerta a seconda dell’area urbana di riferimento utilizzando uno specifico gergo, un vero e proprio linguaggio in codice.

Dice una ragazza – la chiameremo T. – che le rose sono i soldi. Trecento rose equivalgono circa a trecento euro. T. ha iniziato dopo la pandemia per ragioni economiche. Doveva pagare la retta universitaria, si era appena trasferita e doveva farsi carico di un sacco di spese. E la differenza remunerativa con altri impieghi era evidente: quel che guadagnava in un mese come cameriera così lo guadagnava in appena due ore.

Una sua amica, V., usa canali Telegram per tenersi in contatto con altre ragazze che come lei si prostituiscono. Si scambiano i nomi dei clienti, ciascuna tende ad avere sempre gli stessi. Per sentirsi più tranquille durante gli incontri condividono a qualcuno la propria posizione in tempo reale. «Ma questo», sottolinea T., «capita anche in occasione di appuntamenti normali».

La percezione comune è che il rischio, il pericolo si sfiorano comunque all’interno della prossemica di relazione con l’altro sesso: il maschile è temibile per definizione. Dunque, la prostituzione non sposta eccessivamente l’asse della propria incolumità. «Certo», aggiunge ancora T., «in quel caso l’uomo con il quale si va a letto è anche un cliente, perciò è lui a dettare le regole». E non sempre si tratta di regole piacevoli. In ogni caso, si tratta di un modo per esplorare le derive molteplici e multiformi della sessualità – per giunta redditizio.

T. ritiene che la tecnologia abbia alterato il concetto di disponibilità: più volte le è capitato di ricevere foto sgradite mentre era fuori con gli amici, rendendole di fatto impossibile delimitare una dimensione della sua vita che non necessariamente deve decidere e condizionare tutto quanto il resto.

Il nuovo codice 

Le case chiuse, si sa, sono state abolite nel 1958 dalla parlamentare socialista Lina Merlin. I luoghi in cui le donne mettono a disposizione il proprio corpo in virtù del piacere maschile alimentavano, secondo lei, una distorta gerarchia tra i sessi. Se gli uomini consideravano l’accesso al bordello un’esperienza formativa, tanto che erano proprio i padri a condurvi i figli per la prima volta, le donne accusate di prostituirsi erano invece private di ogni diritto civile. Emarginate da quasi tutti i luoghi e gli spazi pubblici, non potevano sposarsi e neppure votare. Merlin era convinta che rendere illegali le case chiuse accelerasse un processo di emancipazione in cui la prostituzione sarebbe stata presto.

La legge contava però su un’omissione, su un rimosso: la prostituzione in quanto libera scelta restava e resta tuttora legale. Nel 2010 la Corte di Cassazione ha definitivamente sancito che qualunque forma di prostituzione può avvenire a patto che le due persone coinvolte siano adulte e consenzienti.

Ha destato non poche discussioni la notizia che dal 1 aprile prostitute ed escort sono state regolarmente iscritte alla Camera di commercio con il codice 96.99.92. Soprattutto perché la dicitura si riferisce a «servizi d’incontro ed eventi simili», includendo al suo interno non solo il singolo esercizio della professione, ma anche la sua struttura organizzativa – tipo la direzione di eventi e la gestione di locali – che in Italia costituiscono ancora reato.

Im Europa manca un regolamento unitario, e ciascun paese adotta un proprio criterio giuridico per legittimare la prostituzione: i Paesi Bassi hanno imbastito un moderno modello delle antiche case di tolleranza – i cosiddetti quartieri a luci rosse nel centro di Amsterdam.

Altri, come la Svezia, l’Irlanda e la Francia considerano responsabile solo il cliente, cioè solo chi compra il rapporto sessuale – aderendo all’assunto che le donne, quando si tratta di prostituzione e di lavoro sessuale, sono quasi sempre vittime, anche se non vi sono fisicamente costrette.

La direttiva abolizionista di cui si faceva portatrice Lina Merlin è pressoché scomparsa da tutti gli ordinamenti statali. Sembra che la vendita e la compravendita della prostituzione siano state ormai assimilate. Senz’altro contribuisce l’istinto delle società attuali di approfittare di tutto ciò che potenzialmente crea mercato per volgerlo in un’occasione di guadagno. Resta il fatto che, come dice T., si tratta «di un fenomeno enorme, che comprende una quantità di persone inimmaginabile», privo di statistiche, di dati certi e di leggi chiare.

«Sentivo che le persone spendevano un sacco di soldi per stare con me. Per avere rapporti con me. Trovo che questo amplifichi la percezione che le donne hanno di sé stesse, del loro potere», ammette T. «In assenza di un ritorno in denaro non l’avrei mai fatto». Più che in altri settori qui influisce il peso del potere economico, la distanza che corre tra chi offre una prestazione e chi la paga.

E le narrazioni che si sono imposte a riguardo, a partire da quelle cinematografiche, sono state spesso accusate di ripiegare quasi sempre su una prospettiva maschile, di compiacere un giudizio sul lavoro sessuale che appartiene agli uomini in quanto tali. Mentre gli sguardi e le posizioni femminili stentano a emergere nella stessa misura. «È ancora molto difficile parlare di prostituzione», sostiene T. «Le serie e i racconti usciti finora si avvalgono di un immaginario troppo edulcorato. Servirebbero prese sulla realtà più autentiche, voci che dicano la verità».

La voce delle piattaforme

Anche per questo nascono reti di tutela delle lavoratrici sessuali, come la Piattaforma nazionale anti-tratta, il Comitato per i diritti civili delle prostitute e il collettivo di sex worker Ombre Rosse. Oppure l’associazione SWIPE, Sex Worker Intersectional Peer Education, dove per “peer education” si intende una trasmissione di valori, di informazioni e di solidarietà tra individui che appartengono a una stessa categoria sociale.

In merito alla nuova classificazione Istat si è espressa così: «Tassare senza riconoscere significa esporre senza proteggere (…) Riteniamo inaccettabile che si proceda a una forma di inquadramento fiscale del lavoro sessuale senza lavorare parallelamente a una proposta di legge sulla decriminalizzazione, modello riconosciuto da Amnesty International, Who, Unaids e Human Rights Watch».

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