Cominciò tutto a causa di un bambino monello.

– Voglio più figurine! – si lagnò.

– Ma ti ho già comprato cinque pacchetti! – gli rispose il padre, cercando la complicità dell’edicolante.

– Cinque sono pochi, ancora uno, papà!

Piede per terra

Successe allora che questo padre esasperato, per sfogare la sua rabbia, battesse un piede per terra. Subito il marciapiede cominciò a vibrare e si formò un piccolo forellino proprio in mezzo alla strada, sulle strisce pedonali, qualche metro più in là. Uno strano fenomeno fisico, a dire il vero, come di collasso geologico e dislocazione della forza.

Benché sia il padre che l’edicolante si fossero accorti del foro, e anche il bambino, nessuno dei tre sembrò prestarci attenzione, e continuarono nella loro scenetta: il bambino che chiedeva più pacchetti di figurine, il padre che tentennava, l’edicolante che assecondava ora il primo nel suo capriccio ora il secondo nei suoi scrupoli. Il foro intanto, nell’indifferenza generale, si era allargato fino a diventare un vero e proprio buco. Una vecchietta che attraversava si vide costretta a deviare il suo percorso fuori dalle strisce, cominciando a imprecare perché così rischiava di venire falciata dalle macchine.

Il buco si allargava impercettibilmente di minuto in minuto, il cemento intorno si sgretolava come sabbia. Ora sarebbe stato visibile a occhio nudo anche a chi si fosse affacciato sbadatamente alla finestra di uno dei palazzi umbertini che costeggiavano l’elegante via Crescenzio, come in effetti successe, nell’ordine, con un dentista e un avvocato. A metà mattina il buco aveva già attirato l’attenzione di diversa gente, e qualcuno aveva chiamato soccorsi. Era arrivato un camioncino del comune e alcuni addetti alla manutenzione stradale che indossavano giacche arancioni avevano transennato la zona.

Sarebbe stato un contrattempo da nulla, come a Roma ne succedono quotidianamente, senonché durante la notte la buca si allargò a tal punto da ingoiare perfino le transenne.

Ora al posto del buco c’era una vera e propria spaccatura che comprendeva anche piazza Cavour, una cosa ancora non spaventosa, ma di certo esorbitante. I residenti, dopo aver dato l’allarme, fecero dei piccoli capannelli nelle strade adiacenti per commentare e anche spettegolare sul fatto. Si tirò fuori il sindaco e l’amministrazione della città e a seguire le squadre di calcio, la pandemia, Amazon. Diverse camionette adibite a compiti diversi si fermarono proprio sul bordo del precipizio, e tanti operai cominciarono a lavorare, mentre ingegneri coi completi blu e i cravattoni ordinavano rilievi e approntavano elaborazioni fotografiche digitali.

Tutto quel viavai ebbe come unico effetto quello di fare espandere la voragine di parecchi metri quadrati. Piazza Cavour implose, compresa la chiesa Valdese e il cinema multisala Adriano, e tutte le panchine e le palme, nonché la statua di Camillo Benso conte di Cavour. La gente era esterrefatta. «Verremo ingoiati», dicevano, quando arrivavano nei paraggi. I servizi ai telegiornali avevano fatto scattare una specie di passaparola, e ormai una capata nel rione Prati per vedere la «disgrazia» o lo «scempio» l’aveva fatta qualunque romano.

La voragine però continuava ad allargarsi, incurante di tutto, anche della propria celebrità. A guardarla dall’alto, da un sesto o settimo piano di uno dei palazzi adiacenti, era evidente che, a fronte di una profondità ancora non drammatica, si estendesse quasi fino al Tevere, con il palazzo di Giustizia, quell’edificio immenso che viene chiamato in gergo il Palazzaccio, che sembrava un iceberg alla deriva.

Venne mandato sul posto l’esercito, per tentare di respingere la folla di curiosi che a ogni ora cercava di superare la zona vietata, per uno scoop giornalistico o semplicemente per un selfie acchiappa like. La voragine era sulla bocca di tutti, giornalisti stazionavano nei suoi paraggi dalla mattina alla sera, ed erano parecchie le postazioni di tv internazionali. Si sentivano rumori di scavi, e trivelle, martelli pneumatici, escavatori meccanici diventarono suoni familiari di quella parte della città, al pari dei garriti dei gabbiani e delle campane delle chiese.

Sulla voragine le speculazioni e gli aneddoti si sprecavano. C’è chi diceva che era stata causata da una ricerca archeologica finita male e chi invece dava la colpa all’incuria della manutenzione stradale ordinaria.

Campagna elettorale

I religiosi ci videro un segno divino, gli ufologi un tentativo di contatto extraterrestre, i maghi un presagio astrologico, gli storici una metafora della società, gli economisti della capitale (e forse dell’Italia), i letterati dell’essere umano.

I politici ci si buttarono a capofitto per la campagna elettorale che era alle porte. Facevano a gara a presentarsi a ridosso del burrone, montare sopra un palco e pronunciare alcune frasi a favore di telecamera.

– Questa voragine è l’immagine fedele del degrado romano, ma con noi ha i minuti contati, promettiamo una poderosa colata di cemento nei primi cento giorni, vota per noi per una città finalmente sicura, – diceva uno.

– Questa voragine deve essere una risorsa e non un problema, basta con il disfattismo dei nostri avversari! Questa sarà la più bella e avveniristica rovina di Roma, e attrarrà investimenti e turisti. Non facciamoci trovare impreparati! – diceva un altro.

– La voragine ci ricorda che la lotta di classe non è mai finita, e il destino stavolta ha giocato a nostro favore. Bisogna ripartire dalle periferie, e per fortuna Roma ne ha in abbondanza! Bisogna ripensarle e riqualificarle, anche perché ci restano solo quelle, – diceva un altro ancora.

Intanto erano passate diverse settimane, e la voragine era cresciuta in larghezza ma anche in profondità. Ogni tanto, nel cuore della notte, si sentiva un tonfo, assordante e sordo al contempo, come annullato dalla indefinitezza della voragine stessa, che preannunciava la sparizione di piazze e basiliche e monumenti. I mattinieri, quelli che uscivano prima di tutti, diventarono loro malgrado gli aggiornatori del disastro, speleologi amatoriali che dovevano aggiornare l’elenco delle cose sparite.

«Oggi manca L’Ente Nazionale della Previdenza sul Lavoro», oppure «Oggi ci siamo giocati l’Ambasciata di Francia», dicevano, aggirandosi tra quel che restava dei palazzoni che un tempo avevano fatto Roma non soltanto grande, ma quasi fuori misura, una città per giganti. Quando la voragine si mangiò Fontana di Trevi si assistette a un’ondata d’indignazione generale. «Roma sparisce nell’indifferenza del mondo» titolarono i giornali.

In città non c’era quasi più nessuno perché l’Urbe stessa era quasi scomparsa. Stringevano i denti soltanto dei residenti agguerriti, ma vivevano come sopra un assurdo formaggio groviera sfigurato da un unico, gigantesco, buco. La protezione civile, sempre con l’aiuto dell’esercito, sfollò la maggior parte della popolazione oltre il grande raccordo anulare, laddove magicamente foto satellitari e accurate riprese dagli elicotteri mostravano una graduale scomparsa del fenomeno. Più ci si allontanava dal centro e più la voragine tornava a essere poco più che una buchetta scavata da un infante, che risaliva in superficie, creando infine un ridicolo effetto di sbalzo di pochi centimetri rispetto al mondo di prima. Reggevano per miracolo alcuni luoghi simbolici, come il Colosseo, e tutto quello che era issato sui sette colli, che sembravano far emergere i loro cocuzzoli direttamente da un abisso.

Riparare

Qualcuno doveva prendere provvedimenti, e allora si pensò a una ricostruzione sommaria, suggestiva più che fattuale, per rendere quel crollo ancora più spettacolare e salvare il salvabile. Venne contattata l’archistar cinese Qiang Huang, il quale per una somma spropositata accettò di presentare un progetto e mettersi a capo dei lavori. Sopra l’abisso vennero sviluppate una serie di passerelle, tipo ponti tibetani, che riprendevano l’originario intrico stradale di prima dello sprofondo. Alcuni ologrammi riproducevano con puntigliosa fedeltà i principali monumenti perduti – si andava dai Fori Imperiali all’Altare della Patria – e in effetti si aveva la sensazione che Roma, o quantomeno il suo videogame, fosse tornata eterna.

Un giorno quel padre che per comprare le figurine a suo figlio aveva provocato la primissima fessura nel suolo, s’incamminò su uno dei pontili traballanti e raggiunse l’edicola di via Crescenzio.

– È tutta colpa mia se Roma non c’è più, la terra si è squarciata per colpa della mia rabbia, – si sfogò con l’edicolante, quasi come in una confessione per scacciare il senso di colpa.

L’edicolante lo riconobbe e si strinse nelle spalle.

– Dotto’, stai sereno, – disse con la classica protervia romana, e le sue parole vennero immediatamente inghiottite con un sibilo dall’abisso che si apriva sotto di lui. – Roma Caput Mundi.

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