La tendenza a identificare il comportamento indisciplinato di bambini e ragazzi come una patologia rischia di eludere il peso di fattori ambientali e familiari, legittimando così processi di esclusione sociale
Da tempo molti problemi di carattere educativo e sociale sembrano essere diventati di competenza della medicina e della psicologia. L’invasione di campo sarebbe motivata da un’ottima ragione: favorire l’inclusione grazie a una didattica più individualizzata. A prima vista sembrerebbe una proposta sensata. Per molto tempo, infatti, il modello medico ha contribuito allo sviluppo di una pedagogia progressista.
I medici sono stati i primi a mettere l’accento su un principio fondamentale, quello di educabilità: tutti sono educabili. Nessuno deve essere lasciato indietro. Per muoversi in questa direzione bisogna anzitutto conoscere il ragazzo. A partire da lì sono nate idee più discutibili, già presenti in alcuni esponenti dell’Educazione Nuova come Adolphe Ferrière e Edouard Claparède: ogni ragazzo ha una sua caratteristica psicologica e su quella si dovrebbero modellare gli interventi educativi. Per fare questo sarebbe necessario “classificare” i ragazzi.
Oggi, in una società sempre più individualizzata e “liquida” (Bauman), la tendenza a classificare gli allievi, anche per legge, sta dilagando e ha assunto dimensioni preoccupanti: la legge 170 del 2010 e le direttive seguenti hanno allargato il campo delle “patologie” da prendere in carico nella scuola. Una direttiva ministeriale, in particolare, ha allargato il campo dei “Bisogni educativi speciali” ai disturbi del linguaggio, della coordinazione motoria, della disprassia, e soprattutto all’Adhd (Attention deficit hyperactivity disorder), ovvero ai casi di alunni con problemi di controllo dell’attenzione e del movimento. La tendenza a classificare il comportamento indisciplinato di bambini e ragazzi come una patologia rischia di eludere le responsabilità dovute a fattori ambientali e familiari legittimando così processi di esclusione sociale.
Negli ultimi anni la tendenza alla gestione medico-psicologica dei processi formativi ha fatto ulteriori passi. Seguendo una tendenza americana, viene promossa anche da noi la pratica di classificare un altro tipo di deviazione dalla “norma”, questa volta verso l’alto: i cosiddetti plusdotati, cioè alunni che si ipotizzano dotati di intelligenza al di sopra della media. Si parla di talenti, intendendo per talento «una predisposizione particolare e innata che può manifestarsi in una o più aree di vita del bambino».
L’idea è sempre la stessa: classificare il soggetto per potergli proporre un adeguato intervento educativo. Questa proposta, apparentemente neutra, trasmette un messaggio: nella società ci sono ragazzi plusdotati per natura (“predisposizione innata”) e altri meno dotati. L’individualizzazione, come ha scritto Guy Avanzini, diventerebbe così solo «un modo più nobile di chiamare la selezione e di praticare l’elitismo senza dirlo».
Il sospetto è fondato per diverse ragioni. In primo luogo, le modalità di individuazione dei presunti talenti (test WISC e WPPSI per definire il quoziente intellettivo) e di classificazione dei ragazzi iperattivi e con disturbi dell’attenzione suscitano molti dubbi. In secondo luogo, queste classificazioni aprono la strada a un modello pedagogico impossibile e pericoloso.
Impossibile perché non si può conoscere l’allievo a priori ma solo lavorando con lui. Pericoloso perché il soggetto è in una continua evoluzione che solo l’insegnante è in grado di seguire. Rinchiuderlo in una definizione di partenza può significare condannarlo a rimanere in quello stato. L’esperienza delle “classi differenziali”, nate con ottime intenzioni e finite cose sappiamo, avrebbe dovuto insegnarci qualcosa.
Si ritorna invece alla “psicologia delle doti” che speravamo di esserci lasciati alle spalle. Invece di una pedagogia delle cause si dovrebbe promuovere una pedagogia delle condizioni. L’evoluzione dell’intelligenza cognitiva e della personalità contiene infatti infinite possibilità che si stabilizzano solo gradualmente. Il soggetto cresce modificando le proprie strategie di apprendimento.
Il problema dell’insegnamento non è, dunque, classificare gli allievi per applicare un percorso deciso a priori, ma osservare e proporre attività che facilitino l’autoregolazione continua. Questo lo può fare solo l’insegnante, che non va deresponsabilizzato. Non lo può fare lo Stato stabilendo per legge dubbie classificazioni. Alcune di esse possono essere utili ma vanno limitate a situazioni specifiche, da usare con cautela e sempre in via temporanea.
Al cittadino attento non sfugge come la tendenza a moltiplicare le classificazioni risponda a una cifra della società: la centratura totale su un individuo libero da responsabilità. La scuola dovrebbe essere un argine alla progressiva irresponsabilità sociale. La sua finalità non è classificare ma emancipare e far apprendere il vivere insieme in democrazia.
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