È la storia dell’umanità a dire che chiunque abbia percorso questo mondo l’ha potuto fare passando non per una ma per due donne. La madre e la levatrice. La donna gravida e la donna che quel corpo lo conosce in ogni sua componente e sommovimento interno ed esterno; che quel corpo lo aiuta a sopravvivere e ricomporsi, a rinascere anch’esso, in un certo senso, una volta “rotto” e lacerato dalla brutalità del parto.

Una realtà forse scontata ma che Claudia Brignone mette in scena nel documentario Tempo di attesa, presentato al Torino Film Festival lo scorso anno e ora candidato ai David di Donatello. Un film corale e semplicissimo nella forma ma puntuale in ciò che vuole raccontare, la cui ambizione politica la si legge in filigrana, dissimulata e nascosta dall’urgenza delle immagini.

Da tempo le donne stanno tornando a immaginare spazi di confronto collettivo e narrazione della propria condizione di madri e gestanti riappropriandosi di un ordine delle cose istituzionalizzato dalla storia e dai codici della società patriarcale. Ed è in particolare il cinema documentario a farsi carico di questa necessità a partire, per l’appunto, da Tempo di attesa di Claudia Brignone fino ad arrivare ad altri prodotti audiovisivi altrettanto incisivi come Notre Corps (2023) della cineasta francese Claire Simon o Witches (2024) di Elizabeth Sankey.

I lavori

Si tratta di esperienze visive molto diverse che raccontano tre condizioni tutte afferenti allo spazio del corpo della donna: la gravidanza e parto, le malattie – spesso taciute dall’opinione sia pubblica che medica – dell’apparato genitale femminile attraverso la quotidianità di un ospedale francese, nel caso di Notre Corps, e la psiche martirizzata delle donne gestanti, che sarebbero state definite, per l’appunto, streghe, in Witches.

Le tre cineaste intendono rendere giustizia a temi dati per scontati o comunque ritenuti non rilevanti a livello socioculturale. Tempo di attesa è una ricostruzione audace e programmatica della vita di una donna che ha dedicato tutta la vita al lavoro da ostetrica, preoccupandosi non solo di aiutare le donne a partorire, ma anche di costruire per loro uno spazio sicuro di conforto ed elaborazione condivisa di paure, ansie e inquietudini.

Claudia Brignone guarda molto, non per caso, al linguaggio di Claire Simon sia per la coralità del punto di vista che per il bisogno di far luce su cose che non si conoscono ancora adeguatamente. Se Tempo di attesa mette alla prova lə spettatorə facendo vedere delle donne che si confrontano apertamente sulla questione culturale della maternità (e del parto), in Notre Corps è possibile sentire parlare, in maniera altrettanto normale e libera, donne e specialiste di endometriosi, tumori alle ovaie, aborto con una precisione e cura nei dettagli soprattutto tecnici che nulla, davvero nulla, è possibile ignorare.

Il silenziamento

Una chiara decisione politica in un contesto internazionale di totale oscuramento di tutto ciò che riguarda le suddette questioni. Altrettanto politica è la decisione di Elizabeth Sankey di andare indietro nel tempo per recuperare le voci e i corpi di quelle donne a cui non era stato permesso parlare della propria condizione di madri; in Witches è evidente che siano stati proprio il silenziamento, l’archiviazione, la repressione continua a determinare nelle donne raccontate l’isteria e l’annullamento della propria identità.

Quel silenzio che culminava nel rogo. La caccia alle streghe, infatti, ricordando le tesi portate avanti da Silvia Federici in Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (2004), ha demolito i metodi che, ad esempio, le donne possedevano per controllare la procreazione – tanto più quando si presentava una gravidanza indesiderata all’indomani di uno stupro – definendoli come strumenti diabolici e rendendo istituzionale il controllo dello stato sul corpo.

Se i movimenti femministi hanno contribuito nei secoli a un graduale rovesciamento di questo stato di cose, sono oggi le riscritture femminili, letterarie, cinematografiche, documentarie, infatti, a costruire una non dissimile rivoluzione: scrivere come atto di re-immaginazione del corpo con un linguaggio che distrugga partizioni, classi e retoriche, così come regolamenti e codici.

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